Esclusiva

A Montegrosso ci sono Pietro Zito e il suo orto, pronti per reinventare Mohammad e la sua storia

Enza Keci
Storie di integrazione raccontate attraverso le pagine del giornalino "La Téranga"
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Mohammad e la sua storia mi riportano alla mente una vecchia poesia afghana “Ben oltre le idee di giusto e sbagliato c’è un campo. Ti aspetterò laggiù”. Ad attendere Mohammad non è un campo sconfinato ma un fazzoletto di terra buona e generosa. Un rettangolo di vita grande abbastanza per piantarci sogni genuini e vederli crescere con dignità. Dal terriccio bruno nasce il verde della natura e da quest’ultima rinasce la vita di un ragazzo.

A Montegrosso ci sono Pietro Zito e il suo piccolo grande orto, pronti per reinventare Mohammad e la sua storia. Il ragazzo infatti, da poco ha iniziato ad occuparsi proprio di questo perimetro di terra tanto caro al nostro chef. Un gran gesto di fiducia e umanità che Pietro ha saputo e voluto materializzare con la parola più sacra del vocabolario umano: lavoro.

L’integrazione odierna è un prisma di vetro dalle mille sfaccettature e colori: accoglienza, ascolto, lingua, assistenza e chi più ne ha ne metta. Nel nostro continuo  impegno come uomini e donne per un mondo a prova di esseri umani,  forse tralasciamo  una grande  scontata verità. Non c’è uomo senza lavoro e viceversa. La vera integrazione parte essenzialmente da quest’ultimo importante e a volte sottovalutato fattore. Il lavoro è il prisma, il vetro illuminato che rinchiude i colori e le azioni  più belle dell’uomo che non riconosce patrie e confini dinnanzi ad un altro essere umano. Perché quando il lavoro è onesto, pulito e trasparente come il vetro riassume a pieno i colori e i valori della parola integrazione.

Nel lavoro vive l’ascolto, il rispetto, l’empatia. E così il nostro Pietro nell’affidare il proprio orto al giovane ragazzo è entrato nella vita e nel passato di Mohammad con rispetto e sensibilità dando un’ulteriore prova della sua grandezza non solo come chef pluripremiato, ma come uomo. 

Zito prim’ancora di essere cuoco è (come spesso ama definirsi lui) un contadino innamorato della sua terra e del mestiere che lo ha portato ad interconnettersi sempre più con quest’ultima. Da buon contadino e uomo ha saputo riadattare  il suo orto non solo come fabbrica biologica da trasportare in cucina ma anche come luogo di integrazione e accoglienza produttiva. Mettere un uomo nelle condizioni  di poter lavorare, significa aiutare quest’ultimo a riprendere la propria vita in mano e a reimpostarla secondo nuovi schemi che lo aiutino a riacquisire la dignità persa ingiustamente nelle circostanze sfortunate che il mondo   può riservare a tante tante persone, in questo caso a Mohammad. Ed è proprio il lavoro a restituire quel sapore di vittoria che predomina sul destino avverso. Come una fabbrica di sogni quest’ultimo, è in grado di creare i presupposti per la speranza, i progetti grandi e piccoli, la libertà, la gioia di essere al mondo  e utili al proprio mondo.

Nel piccolo orto a Montegrosso il verde croccante della verdura è anche quello della speranza, con le radici che rimangono ancorate dentro la terra bruna e i ricordi che vivono inevitabilmente nel Pakistan di Muhammad. Anche nella storia del giovane ragazzo, come in quello della poesia afghana,  c’è un campo ad attenderlo e una vita che merita di essere ripresa dal punto in cui era stata interrotta. L’orto, Pietro e tante altre persone sono i campi che non conoscono confini geografici, se non quelli del cuore umano e forse per ironia della sorte o qualche strana casualità del destino, in questo preciso istante a scrivere è proprio una persona frutto di quella fabbrica di sogni proficua chiamata integrazione, lavoro: io.

Adesso per Mohammad il lavoro è quel campo sconfinato dove ci si incontra al di là di giusto e sbagliato. Senza credito né merito le nostre vite sono state affidate a porzioni di mondo diverso e qualunque essere umano che cerchi di estrapolare la propria esistenza  per proiettarla sotto una luce nuova e di speranza non va assolutamente  fermato con affermazioni banali e idiote frutto di menti mediocri, bocche scontate, vite fortunate.

Sempre  da Pietro Zito,  questa volta  però venti anni fa   esattamente quanti  gli anni che ho io adesso, un giovane ragazzo albanese da poco arrivato in Italia  per circostanze alquanto buffe se paragonate ai classici motivi che spingono la gente a migrare come rondini verso cieli più azzurri, iniziava a reinventare la sua vita. Accantonò definitivamente l’idea di ritornarsene in Albania con sua moglie e decise di riprogettare le visioni, gli ideali per la persona che adesso è dietro la tastiera. Questo però è un altro racconto cari lettori, costruito e puntellato di particolari diversi e situazioni e circostanze lontane anni miglia  dal giovane Mohammad. C’è solo un denominatore comune nelle due vite raccontate: il grande chef e la cucina, Pietro e l’orto. 

Alla fine dunque, le storie si muovono come cerchi roteanti connettendo tutta l’umanità, non sai mai cosa toccherà o racchiuderà  la circonferenza una volta che sia stata disegnata. Le linee si espandono a vista d’occhio  e gli esseri umani vengono collegati in strane e magiche alchimie che distruggono i muri spessi che li  dividono. Sono i campi in cui gli uomini si riconoscono come linee stilizzate: senza colore, etnia, religione o identità politica. Ci sono solo una miriade di cuori che battono a tempo di ciò che ci rende simili: l’amore, la felicità, il dolore, la vita.

lunedì 20 Marzo 2017

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