Chi ancora oggi va a funghi o a raccogliere verdure spontanee lungo il saliscendi della Murgia trova con una certa frequenza delle masserie diroccate, case coloniche abbandonate, piccoli raggruppamenti di casupole. Sono la memoria di un’epoca di speranza che negli anni cinquanta fece la storia della nostra gente ancora stordita dalle conseguenze della guerra e dei disordini sociali, che fecero registrare anche diversi delitti che ci resero famosi in tutta Italia.
Una di queste masserie apparteneva a una ricca famiglia andriese: non la usava per viverci, come magari avevano fatto altri nei secoli passati, ma veniva utilizzata come ricovero per i braccianti abbastanza numerosi soprattutto nel periodo della mietitura. Durante gli altri periodi un custode viveva con la sua famiglia allevando anche capre, pecore, conigli, galline per il sostentamento della sua famiglia e per fornire la carne al suo padrone.
A giugno del 1942, mentre infuriava la guerra, il padrone con il massaro riuscirono a fare una nutrita squadra per la mietitura. Quando finì la raccolta del grano e il suo trasporto tre braccianti (Antonio, Michele e Francesco) chiesero al padrone se potevano tornarci per conto loro a spigolare il grano rimasto che poteva essere utile per le proprie famiglie. Il padrone acconsentì a una condizione: venite la settimana prossima quando sono libero anche io. I braccianti ringraziarono contenti e per la settimana successiva si organizzarono con due traini in modo da poter caricare anche qualche figlio grandicello che poteva essere utile nella raccolta.
Quando arrivarono il padrone non c’era e avvisarono il custode del lavoro che si apprestavano a fare. Il poveretto cadde dalle nuvole e disse ai braccianti che erano arrivati troppo tardi perché nei giorni precedenti gli animali della masseria, come tutti gli anni, avevano mangiato quanto di buono era rimasto. I braccianti rimasero delusi e pensarono subito a un cattivo tranello del padrone. Prima gli animali poi gli uomini. Andarono a protestare, non solo, ma sparsero la voce anche agli altri per cui nessuno volle più andare a lavorare da lui. Stante la guerra e il rancore, il proprietario decise di non coltivare più quel terreno tanto che dopo qualche tempo anche il custode abbandonò la masseria che era diventata pericolosa sia per i ladri che gironzolavano sia per i soldati raminghi che scappavano dal fronte. Il padrone riversò le sue attenzioni sugli altri terreni: ne aveva tanti.
Quando però nel 1950 entrò in vigore la Riforma Fondiaria i primi terreni a essere requisiti furono proprio quelli: perché incolti e perché proprietà di un latifondista. Tra i primi ad iscriversi per l’assegnazione dei terreni furono proprio i nostri tre braccianti, che in quel periodo erano vissuti grazie alle giornate occasionali che avevano racimolato andando in piazza Porta la barra tutti i giorni a prmmett.
La riforma fondiaria fu una scelta felice del governo De Gasperi tendente a dare una piccola proprietà ai tanti braccianti disoccupati e anche il tentativo di occupare le campagne, specie se abbandonate. Utilizzando i soldi americani del piano Marshall furono costruite case, strade, furono fatti piani irrigui per i campi e per le famiglie. Questa Riforma funzionò un po' dappertutto in Italia tranne che sulla Murgia sia per il terreno pietroso sia per la distanza dai centri urbani.
Infatti i tre braccianti, che erano riusciti ad avere terreni confinanti (non quelli del vecchio padrone), si organizzarono con le famiglie e si trasferirono contenti in queste case coloniche: belle e con tutti i servizi che essi nel centro storico non avevano mai visto. Anche il lavoro sembrava promettente: avevano detto loro che bastava togliere un po' di pietre per rendere coltivabili quei terreni. Intanto ognuno aveva avuto a disposizione un po' di bestiame ( dai conigli alle galline, alle pecore e capre e anche un cavallo utile per il trasporto). I figli avevano più o meno la stessa età essendo tutti adolescenti ed insieme formavano una specie di comitiva per cui non si sentiva la solitudine. Il problema scuola non esisteva in quanto non ci andavano quando stavano in Andria e non ne avvertivano il bisogno ora. Anche sul piano affettivo i problemi erano relativi: i ragazzi flirtavano con le ragazze (due si erano anche fidanzati con una festa alla quale parteciparono tutti) e se uno dei tre sbirciava la moglie dell’altro veniva immediatamente scoperto dalla sua (le tre avevano stretto un patto di ferro tra loro: assoluta fedeltà reciproca).
Intanto i tre uomini con i figli grandicelli e qualche volta anche con le mogli cominciarono poco a poco a dissodare il terreno: prima quello circostante le case per fare un orticello poi allargandosi mano a mano per coltivare un po' di frutta e seminare il grano, coltivazione che essi conoscevano benissimo. Ma qui cominciarono le delusioni: toglievano le pietre che accatastavano da qualche parte e uscivano altre pietre. Lo avevano dato come seminativo ma in realtà era una pietraia. I tre amici si lamentavano tra di loro ma non riuscirono a trovare una soluzione. Diverse volte si presentarono in Andria presso gli uffici dell’Ente riforma per chiedere aiuto. Ma invano, andava bene quando riuscivano a parlare. La realtà era che da noi lo Stato questa volta riuscì ad espropriare terreni scadenti, contrariamente alla riforma della Buonanima che, agendo di sorpresa riuscì ad espropriare terreni fertili (Montegrosso, Troianelli, ecc.).
L’unico disposto ad ascoltare le loro pene era don Riccardo Zingaro che ogni tanto andava da loro per celebrare la messa. Faceva a turno tra i diversi insediamenti per portare loro una parola di conforto e i sacramenti. Qualche volta anche il vostro narratore lo accompagnava prima come chierichetto e poi come collaboratore. La sensazione che ancora ricordo era di profonda tristezza. Erano usciti dalle grotte fatiscenti ma era stato tolto loro la relazione sociale. Il mondo girava intorno alle tre famiglie e qualche volta saltava l’armonia anche tra loro se litigavano i figli o se un animale invadeva la proprietà altrui.
Fu in una di queste visite che don Riccardo suggerì di trascurare il terreno e dedicarsi all’allevamento del bestiame che egli stesso aiutò a organizzare portando anche sul posto un esperto in prodotti caseari perché imparassero a trasformare il latte rendendolo così ancora più redditizio. In qualche circostanza il vostro narratore ha assaggiato il vero latticinio di colore tendente al giallo perché non toglievano il burro. A distanza di decenni lo ricorda con nostalgia.
Antonio, Michele e Francesco e le loro famiglie si entusiasmarono per il nuovo lavoro e con qualche provvidenza e qualche aiuto crearono i recinti e acquistarono il bestiame, soprattutto pecore e capre più facili da pascolare. Insieme organizzarono un laboratorio per la trasformazione del latte nel quale lavoravano prevalentemente i giovani. Stabilirono anche collegamenti con qualche negozio per la vendita del prodotto oltre al latte che vendevano all’ingrosso. Sembrava che tutto andasse per il meglio quando cominciarono le tentazioni e i pericoli. I giovani si erano stancati di quella vita monotona senza divertimento e senza relazioni sociali: ormai erano diventati grandi ed era difficile contenerli nel recinto familiare. Anche le donne cominciavano a dare segni di insofferenza per quella vita abbrutita perennemente tra gli animali. Tuttavia gli uomini riuscirono a contenere questi disagi perché dal punto di vista economico era migliorata la situazione. Ma proprio questo fu l’elemento determinante che portò alla fine della esperienza: all’improvviso comparve l’abigeato: si cominciò con il furto di qualche animale che toglieva sicurezza anche alle persone, poi l’estorsione sui prodotti, infine l’uccisione degli animali se non si pagava. Fu la fine.
I giovani per primi non volevano più restare e pregavano don Riccardo di mandarli in Germania a lavorare. Don Riccardo cercò di scoraggiarli per non mettere in difficoltà le famiglie ma alla fine dovette prendere atto che la situazione era diventata insostenibile. La bella idea della riforma fondiaria si infrangeva contro la violenza che la pubblica autorità non riusciva ad estirpare.
Fu così che i figli maggiorenni partirono tutti per la Germania e il resto delle famiglie, dopo aver venduto il bestiame si ritirarono in Andria e Antonio, Michele e Francesco, ormai avanti negli anni, dovettero ricominciare daccapo ad andare a Porta la Barra a prmmett qualche giornata in campagna. Per fortuna cominciarono ad arrivare le rimesse dei figli ad aiutare la situazione.
Fu così che la Murgia si spopolò di nuovo diventando preda prima dell’esercito (per le sue esercitazioni) poi dei cacciatori e dei raccoglitori di funghi e cicorielle. E Federico, che da 800 anni si aggira irrequieto nel Castello, tornò ad essere solo. Anche i casolari sparsi o raggruppati sono rimasti mute sentinelle di una speranza morta sotto le pietre. Il sogno “la terra a chi lavora” si era frantumato per mancanza di coraggio degli enti pubblici. Negli jazzi sparsi sulla Murgia si sente ancora il profumo delle pecore e della capre: ma di quegli animali non c’è più traccia. Ora tocca ai cinghiali infestare la zona.
Grazie a chi ha voluto condividere con noi un ricordo così duro ma ricco di vita, mi ga portato con la mente a quella che è stata la vita dei miei avi. Inoltre ci insegna come la vita ci riserva sempre cambiamenti grazie narratore.
Grazie prof..Andando per funghi sulla Murgia mi chiedo sempre della storia di questi insediamenti.Qualcosa mi riferivano i genitori
Oggi grazie a Lei il cerchio si è chiuso. Ancora grazie per queste chicche che ci regala ogni volta . Ex alunno Suo e di Sua moglie.
Salve professore… io non la conosco ma nel suo racconto ha dato risposte a tante di quelle domande che mi pongo quando vado in quei posti e mi viene la rabbia nel vedere quegli agglomerati di abitazioni abbandonati… secondo me ritornare a quella vita se fosse possibile non sarebbe male.