“Chidd evn animoil mich crstioin”: con questa frase del popolo si concludeva il racconto dedicato agli ultimi giorni della presenza dei tedeschi in Andria.
Andria non è stata sul fronte di guerra, ma di essa ha subito tutte le conseguenze dando un contributo di sangue notevole (circa 800 i morti) e patendo tutte le conseguenze che accompagnarono quel conflitto: la fame, il mercato nero, la disoccupazione ecc. Anche gli andriesi attesero la fine della guerra con impazienza, nella speranza di riprendere il filo della vita “normale” bruscamente interrotto il 10 giugno del 1940 quando l’altoparlante in piazza Catuma annunziò la fine della ricreazione.
La presenza dei tedeschi in mezzo a noi era stata caratterizzata dalla violenza gratuita: contro la gente, contro le donne in particolare. Nessuno aveva dimenticato il giorno drammatico in cui i tedeschi chiesero al podestà andriese di consegnare loro in ostaggio 500 donne. Per fortuna il podestà in quella circostanza riuscì a guardare oltre le svastiche e oppose un netto rifiuto, del quale i tedeschi dovettero prendere atto ma che portò un ulteriore inasprimento dei soprusi quotidiani. Gli andriesi sull’onore delle proprie donne si giocano tutto, disse minacciando una insurrezione popolare. Il giorno in cui si diffuse la notizia dell’armistizio i tedeschi consumarono gli ultimi sfregi contro una popolazione stremata. Per prima cosa inasprirono il coprifuoco per le ore serali e notturne: lo fecero per tenere sotto controllo la situazione. Infatti qualche giorno dopo incendiarono un grande deposito di carburante al Largo Torneo e il magazzino dei viveri. La gente smagrita per i patimenti passati assistettero con rabbia a queste distruzioni: con lo stomaco vuoto sentire scoppiettare sotto l’incedere del fuoco le scatolette di carne o di altri viveri non era un bel sentire.
Non lo era soprattutto per un gruppo di ragazzi: non erano più adolescenti all’anagrafe ma non erano ancora giovani per la stazza fisica. Erano grandi quando si trattava di lavorare per portare qualche soldo a casa,erano piccoli quando dovevano uscire per strada a giocare quasi sempre a piedi scalzi per non sciupare le scarpe. Mangiavano tutti nello stesso piatto per non consumare l’acqua, la mamma tagliava il pane, quando c’era, in grembo sul grembiule per poter recuperare anche l’ultima mollica. Negli ultimi mesi si erano nutriti non tanto per quello che trovavano in casa ma per quello che riuscivano a reperire girando per le campagne. Il narratore ha qualche pallido ricordo dei tempi quando mangiare una volta al giorno era un fatto positivo: si mangiava nel pomeriggio per poter abbinare il pranzo con la cena. I ragazzi si erano raccolti nei pressi dei magazzini nella speranza di approfittare di qualcosa. Il fuoco ebbe la meglio.
In quel mentre si diffuse la notizia che l’altro magazzino di viveri situato a Papparicotta era ancora integro. A migliaia partirono dalla città uomini, donne e ragazzi nella speranza di poter racimolare qualcosa da mettere sotto i denti. A piedi, in bici e con qualunque altro mezzo si riversarono su via Canosa dove però incontrarono le retroguardie dei tedeschi che stavano fuggendo. I tedeschi cominciarono a sparare per intimorire l’avanguardia della popolazione formata da ragazzi che erano i più veloci e affamati. I tedeschi pensarono bene di incendiare anche il magazzino di Papparicotta, per cui quando i ragazzi, che avevano attraversato i poderi per non essere presi di mira dai loro mitra, si trovarono di fronte la fiamme alte e nel contempo c’era già gente a trafugare tutto quello che si poteva mettere nei sacchi. Ovviamente la ricerca maggiore era per le scatolette di carne compito non facile nel caos che si era creato. I ragazzi riuscirono a prendere quattro scatole da cinque chili ciascuno e cercarono di caricarsele in qualche modo addosso. Contenti si avviarono per il ritorno a casa. Ma nel parapiglia una scatola cadde e si ruppe. Fu una fortuna perché si resero conto che si trattava di peperoni e a loro non interessavano: i peperoni si mettono sulla stomaco ma non lo riempiono. Abbandonarono i peperoni e ritornarono indietro nella speranza di prendere qualcosa di più sostanzioso. Cominciarono a rovistare e, questa volta, per essere sicuri cominciarono a rompere le scatole (di latta) fino a quando non trovarono quelle di carne. Letta la sigla che le contraddistingueva non fu difficile per loro farne incetta. Carichi come somari (quante ne poteva contenere una camicia o persino un paio di pantaloni trasformati in sacchi) ripresero la via del ritorno, resistendo anche ai tentativi dei ritardatari che volevano dividere la loro refurtiva. Tornarono a casa che era tardi la sera e trovarono i genitori preoccupati sulla soglia. Appena apparirono accmnzè la frstaroie: urla, rimproveri, minacce. Durò tutto solo qualche minuto, fino a quando non videro il bottino. Immediatamente allora li fecero entrare tra baci e abbracci. E fu festa condivisa perché anche i vicini furono coinvolti. La più anziane non smettevano di ringraziare la Madonna perché aveva ancora una volta consentito loro di assaggiare la carne. E qui un accenno di discussione conclusa velocemente tra le donne che ringraziavano la Madonna e un vecchio socialista che voleva si ringraziassero i ragazzi: la fame toglieva il fiato alla discussione. La cosa più emozionante fu il passaparola e tutti i vicini si affacciarono e nessuno fu rifiutato. Il povero è più generoso del ricco perché il primo sa che quello che ha è un dono, il secondo è tentato di pensare che tutto è roba sua. Alla fine della serata tutti si complimentarono con i ragazzi per il coraggio dimostrato e l’intelligenza con la quale avevano affrontato il pericolo.
I giorni successivi si cercò di capire se vi fossero altri magazzini stracolmi di viveri. Evidentemente qualcuno ne faceva incetta per barattarli con altri prodotti o addirittura venderli al mercato nero. Succede sempre nei momenti critici che qualcuno ne approfitti: succedeva durante le crisi economiche degli anni settanta che addetti al controllo del territorio vendessero zucchero, succede(rebbe) oggi a piazza Toniolo tra stranieri e andriesi.. Finalmente arriva la soffiata giusta: masseria Ceci, contrada Tafuro.
Questa volta ci si organizza con l’aiuto dei genitori, uno dei quali mette a disposizione persino un traino e il somarello indolente. Si misero in cammino la mattina presto, ma lungo la strada si resero conto che non erano i soli ad aver avuto la soffiata. Bisognava allora cercare di arrivare prima degli altri e non furono pochi gli incidenti nel tentativo di effettuare qualche sorpasso, comunque non c’era tempo per litigare: ci si aiutava l’un l’altro se possibile e via. Il traino dei nostri ragazzi guidato dal proprietario fu fortunato a trovare subito il magazzino della farina: ma erano sacchi pesanti e dovettero arrendersi. Passarono a un’altra ala della masseria dove nella furia alcuni sacchi si erano rotti e la gente riempiva tutti i contenitori che aveva a disposizione. I ragazzi si erano portati dei sacchi che riempirono in varia misura e caricarono sul traino. Peccato che molta farina andò persa all’inizio e fu pietoso vedere i ritardatari raccogliere pugni di farina da terra.
Caricato il traino i ragazzi dovettero tornare in Andria a piedi perché il somarello non ce la faceva per il peso. Mentre stavano scaricando la farina (i ragazzi abitavano sulla stessa strada) ecco radente il muro e con fare furtivo passare veloce un fascista che si era distinto per il gusto sadico di punire i ragazzi per qualsiasi motivo. I ragazzi lo videro e stavano sospendendo il prezioso lavoro per rincorrerlo e dargli una lezione ora che il fascismo era caduto. Fu il padrone del carro a fermarli:
-addià scioit, Lassatl perd.
-naun, risposero i ragazzi, a niue n’ha mnoit a tramout, moue attoc ad idd.
Uagniun, vdoit ca camoin cum’a nu coinrgnius (cane rognoso), voul doic ca la lziaun l’havva viut gè. U Padretern vait i assegn, alla scrdoit appresend semb u cnd ( col tempo presenta il conto).
I ragazzi capirono la lezione e tornarono a scaricare la farina e finalmente si potette tornare a fare il pane.
La fine del 1943 andò avanti con la solita scena di soldati mal ridotti e mal vestiti che tornavano in ordine sparso alle proprie case. Il quadro mutò all’inizio del 1944 quando approdarono in Andria gli alleati. Mica tanto però. I soldati, abbrutiti dalla guerra, spaventati dalla morte guardata in faccia tante volte, sono uguali a prescindere.
I lettori mi perdoneranno se in questo racconto ho evitato i nomi: fu una esperienza di popolo: sicuramente chi ha qualche nonno potrà metterci il suo nome.
Nel 1987 il sindaco D’Avanzo, aderendo a una richiesta del preside Fuzio, fece iscrivere gli ottocento morti della II guerra mondiale sulle pareti esterne del Monumento ai caduti. I giovani facciano memoria e non barattino la libertà conquistata a caro prezzo.