Quel giorno il gonfalone era triste. I vigile che lo esibiva lo faceva di malavoglia, inutilmente però perché dietro non vedeva la rappresentanza popolare. Il sindaco non c’era e dei consiglieri comunali pochi erano presenti e nemmeno uniti: distanti gli uni dagli altri, creando imbarazzo nel gonfalone che, invece, era abituato a rappresentarli tutti uniti. Oltretutto era forse la prima volta che usciva da solo senza la fascia, che normalmente lo accompagna. Anche la Chiesa, proprio per questa condizione di disagio, aveva relegato il gonfalone in fondo alla processione, svilendo l’importanza di un emblema che in realtà rappresentava la civiltà di un popolo. Non a caso prima il gonfalone seguiva la sacra Spina. Quando il vigile, terminata la processione, raggomitolò il gonfalone, questo era umidiccio: distratto però il vigile non si pose il problema se fosse solo umidità o anche pianto.
Lo fece notare Carla, una ragazzina di quindici anni che però in famiglia era vissuta a pane e politica: fu lei a preoccuparsi che lo stendardo potesse rovinarsi. Ma il vigile, forse in considerazione che in quel momento non doveva rispondere a nessuno, ebbe solo un moto di stizza: quasi a dire alla ragazza: di che ti impicci? Anche Carla diventò triste quella sera. Aveva aspettato la processione in piazza Catuma proprio per godersela tutta, aveva apprezzato quella folla immensa che ordinatamente seguiva le statue dei Misteri, era rimasta ammirata dal raccoglimento con il quale i fedeli, anche quelli che pigri come lei seguivano l’evento dai marciapiedi, partecipavano alle preghiere; rimase scioccata di fronte a quel quadro finale. Si appoggiò all’amichetto che le era a fianco e con gli altri si avviò verso la chiesa del Purgatorio con l’occhio fisso al gonfalone, che era a pochi metri di distanza da lei… A chi le chiedeva spiegazione su questo repentino cambio di umore rispose che l’aveva impressionata la solitudine del gonfalone e la divisione dei consiglieri. E anche quando gli altri le ricordarono la consuetudine di mangiare il ”tre nocelle” dopo la processione disse che quella sera non ne aveva voglia. Quel venerdì santo si rivelò veramente un giorno di passione per lei, più di quanto potette esserlo stato per la città. Il padre le aveva raccontato di tante battaglie all’ombra di quello stendardo, ora a lei doveva capitare una stagione fatta di divisioni e polemiche.
Poi Carla, presa dagli impegni scolastici, aveva dimenticato la tristezza del Gonfalone. Ma ecco che il giorno della festa della Madonna dell’Altomare, non vedendolo dietro la processione (non sapeva lei che non c’era mai andato), le viene nostalgia di quel pezzo di stoffa azzurra ricamata in oro. Tre giorni dopo sale le scale del comune e chiede all’usciere se era possibile vedere il gonfalone. L’aula consiliare è chiusa e quindi non si può, rispose il dipendente comunale. La ragazza insiste parlando di una tesina da presentare a scuola. Era brava a dire le bugie. Alla fine il burocrate acconsente e, per fortuna di Carla, dopo averla introdotta nell’aula consiliare chiude la porta per evitare che altri entrino.
Carla all’improvviso si trova sola nell’ampia aula consiliare, si avvicina lentamente al Gonfalone, lo ispeziona per bene e poi si siede al primo banco. Mille pensieri le frullano per la testa, quando a un certo momento, volgendo lo sguardo al Gonfalone disse: “quanda chiacchr si custrett a sndoie”. Non ebbe finito di parlare che sente una voce, senza capire se dentro o fuori di se: “io sento e dimentico, è Quello che sta di fronte a me che annota tutto”. La ragazza prima si spaventa, cerca di capire se dietro allo scranno del sindaco si nasconde qualcuno. Una volta tranquillizzatasi che con c’era nessuno guardò dalla parte opposta e vede il bellissimo crocifisso (di Bramante). Capì allora che le parole vuote di senso possono anche convincere gli umani, ma chi ha sofferto (o soffre) le pene dell’inferno per aiutare gli uomini non può dimenticare quello che si dice o si promette. Carla abbassò la testa facendosi il segno della Croce mentre borbottava: “mang moil ca ste Sgnrei”. Poi poggiò la testa sullo scranno per trattenere i tanti pensieri che le mulinavano in testa. Che poi la colpa è anche la nostra, pensò ricordando di quando la zia pretendeva che si votasse il figlio che si doveva “sistemare”. Si eleggono i figli, i parenti, i datori di lavoro, chi dà qualche euro schifoso. Poi magari il giorno dopo ci lamentiamo che le cose non vanno come desideriamo. Il padre invece le parlava di quel consesso con il meglio della popolazione andriese.
Fu a questo punto che guardò il gonfalone e vide il leone che si arrampicava al ramo della quercia. “E tu che fai lì? Per caso rappresenti il popolo?”, disse parlando in italiano anche se sapeva che il leone era africano. Con sorpresa sentì di nuovo la voce: “voi andriesi mi avete scelto a rappresentarvi su questo panno: pensavate di esprimere la vostra forza e avevate ragione: il popolo è più forte del potere. Ma forse non ero io il più indicato. Io faccio la faccia feroce, ma sono il più educato degli animali, subisco il fascino dell’uomo, sono il più addomesticabile, non a caso dall’antichità sono quello più usato nei circhi. Bastano due parole e magari una caramella che subito obbedisco”. Carla si ritrova in quella spiegazione e fa memoria del poco latino che ronzava nella sua mente: vulgus vult decipi (il popolo vuole essere imbrogliato). E ricorda quanti stranieri sono venuti a comandare da noi… Riflettendo sui pochi ricordi della scuola pensa che forse il popolo cerca in chi comanda protezione più di ogni altra cosa e quindi vota non chi ha idee, ma chi tranquillizza: per questo il padre di Carla a casa parlava spesso della “mamma dc”, che vinceva perché forza tranquilla, mentre loro, i comunisti, parlavano sempre di rivoluzione. Forse per questo oggi si sentiamo bisogno di un papà.
Mentre fa queste considerazioni l’occhio cade sul ramo di quercia: “i tiue crrò cindr?” La quercia se l’aspettava la domanda. “Io sono l’albero più forte”. “E chi lo dice?”, replica la ragazza. “Lo stabilì un giorno il referendum tra le piante.” Lo dice seria mentre Carla scoppia a ridere. E raccontò di quella volta che il diavolo si presentò al Padreterno per avere un po’ di potere sulla terra. Dio, che alla fine poi è sempre buono, disse: “va bene, però solo quando gli alberi perdono le foglie”. Il panico si impadronì delle piante che non volevano il diavolo come padrone. Allora le piante si rivolsero alla quercia che sembrava l’albero più forte chiedendo aiuto. La quercia ci pensò un po’ poi disse: “va bene, io userò tutte le mie forze per trattenere le foglie attaccate ai rami, anche se ingiallite”. E così le piante furono salve. La quercia rimaneva sempre verde e quello sforzo che faceva non era per se ma per le piante che avevano fiducia in lei. Carla si guarda intorno immaginando il consiglio comunale come una quercia a presidio della città. Se poi il Consiglio se ne scappa…
“Cosa vuoi dire che alla fine vinci sempre tu?”, chiede la ragazza.
“Certo, il Padreterno non si è dimenticato di nulla. Possono accadere tante cose, ma il popolo alla lunga vince perché ci possono essere coloro che si fanno abbindolare dalle frottole ma non tutti ci cascano e non tutti insieme”, dice la quercia. “Anche a me cadono delle foglie, ma non tutte insieme, per questo sono resistente”.
Carla sottovoce chiede: “ma perché gli andriesi non lo capiscono?”
“Per la semplice ragione che mi hanno messo qui sopra insieme al leone ma nessuno studia chi siamo e perché stiamo insieme”.
“Perché state insieme?” chiede Carla.
“Perché la natura è perfetta come è stata creata. Le divisioni non sono naturali. Il mondo è uno e ogni cosa serve all’altra. La divisione dei continenti e delle nazioni sono gli effetti delle guerre, non sono naturali. Se tu togli il pane agli africani prima o poi verranno a riprenderselo. Quando io sento qui dentro litigare uno contro gli altri per questioni personali a volte mi viene voglia di prendere la parola e dire che così non andate da nessuna parte e prima o poi il popolo si arrabbierà”.
Carla rimane impressionata dalle parole della quercia. Piange per non aver compreso prima la lezione. Si fa un selfie con il Gonfalone e mette la foto da sfondo sul suo telefonino in modo da ricordarsene sempre. Poi bacia il gonfalone facendo in modo che la sua saliva rimanga impressa sulla stoffa.
La sera torna a casa e racconta al padre quanto le era capitato. Il padre, vecchio comunista, accarezza la figlia e le parla di un mondo strano quello di oggi, siamo capaci solo di litigare. E racconta che lui quella sera era andato alla Comunità Braccianti per ascoltare la storia di don Riccardo Zingaro che tanto aveva aiutato gli andriesi dopo la guerra. “Ho trovato la porta chiusa perché alcuni non erano d’accordo. Ai tempi miei si litigava sulle idee e i fatti ma ci si rispettava e proprio don Riccardo ci ha insegnato ad aiutarci tutti: lui non mandava nessuno indietro, anche quelli che lo combattevano. Don Riccardo mandava gli andriesi in Germania, i comunisti non volevano, ma la notte noi andavamo a pregarlo perché aiutasse anche i comunisti. Don Riccardo la notte dimenticava tutto e abbracciava tutti”. “Proprio come don Camillo e Peppone?”, lo interrompe la figlia. Ma il padre non raccoglie e continua: “fu il primo a raccogliere gli Africani e al Parlamento europeo allora si parlava del “modello Andria“. Io mi sono rattristato per quella porta chiusa: chissà come si è sentito male don Riccardo addià stè”.
“Papà, da grande voglio fare come don Riccardo”.
“Io sarei contento, figlia mia, anche se non potrai diventare prete. Prima, però, devi studiare, devi lavorare e solo allora potrai mettere la tua conoscenza e la tua esperienza al servizio degli altri, altrimenti fai solo danni”. La figlia abbracciò il padre dicendo: “grazie!”.
Ma come sono belle queste storie a lieto fine!!