Cultura

Il Popolo (di Andria) Fidelis

Vincenzo D'Avanzo
Ora ci sono i potenti e i semoventi che si credono superiori agli altri: basta una divisa, qualunque distintivo che ci si crede superiori. Ma il popolo non è ingenuo, capisce che quella differenza si chiama arroganza
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Carlo era un giovane di bell’aspetto, gioviale sempre pronto a socializzare con tutti, anche se di ceto diverso rispetto al suo che era di famiglia tutto sommato modesta. Egli lavorava come dipendente in una grossa azienda agraria. Questo gli assicurava un reddito pressoché costante durante tutto l’anno. Ma era l’unico reddito della famiglia avendo un padre in condizioni di salute cagionevoli, una madre che si dava da fare anche con i servizi presso qualche famiglia  e due sorelle ancora adolescenti. Il perno della famiglia era quindi Carlo che era riuscito a farsi benvolere dal proprietario terriero e soprattutto dal massaro: entrambi apprezzavano la sua disponibilità al lavoro e soprattutto la sua intelligenza nella soluzione dei problemi emergenti. Questo rendeva reciprocamente fedeli Carlo, il massaro e il padrone. Anzi gli altri due garantirono a Carlo che lo avrebbero tenuto sempre a lavorare con loro.

Carlo, abitando nei pressi della chiesa di san Domenico, ogni giorno passava sotto l’arco di sant’Andrea (o, meglio, di Federico II: prima di segnarsi più o meno frettolosamente davanti alla immagine sacra alzava lo sguardo alla scritta: Andria fidelis nostris affixa medullis. Tutte le parole gli sembravano chiare, solo quell’affixa gli creava qualche difficoltà. Di latino non capiva nulla e sperava di chiedere spiegazione a un prete alla prima occasione. Ed ecco che un giorno, verso a fine di aprile, piovere a dirotto, cosa che gli aveva impedito di andare in campagna. Mentre bighellonava davanti alla casa non appena usciva un raggio di sole, vide una processione snodarsi dalla chiesa di san Nicola e dirigersi verso l’arco di sant’Andrea. Pensò che quello era il momento buono. Si avvicinò, infatti, e assistette alla benedizione all’esterno verso la campagna. Poi un uomo si arrampicò su uno scalino traballante e cominciò a fissare un crocifisso sulla parete già piena di tanti altri. Mentre avvenivano queste operazioni Carlo si avvicinò a un sacerdote per porre la sua domanda. Il sacerdote non capì, anche perché l’espressione di Carlo era incerta, e spiegò che era una tradizione che ogni anno a fine aprile, conclusa la vecchia stagione agricola con la puta, si benedicevano le campagne bene augurando un nuovo anno fruttifero. Carlo insistette per la scritta, ma il sacerdote disse che non ci aveva mai fatto caso e quindi nulla sapeva. Carlo rimase deluso e da quel giorno non ci pensò più.

Garante la sua tranquillità economica Carlo, dopo un breve fidanzamento, convola a nozze. Lo fece quando le due sorelle si erano organizzate con un laboratorio dove una faceva la sarta e l’altra ricamava, consentendo anche ad altre adolescenti di frequentarlo per imparare il mestiere. Quindi lasciò la casa dopo essersi tranquillizzato della condizione della famiglia.

Tuttavia non abbandonò la comitiva con la quale prima usciva a divertirsi, ballare e fare qualche scorribanda. Un giorno i vecchi amici lo invitarono a una gita di piacere sulla rinomata statale 98 appena asfaltata. Carlo disse che non ne voleva sapere avendo da poco giurato fedeltà alla moglie e non aveva intenzione di tradire. Gli amici lo burlarono, ma lui rimase fermo nei suoi principi tanto che essi pian piano si allontanarono da lui. Carlo ci rimase male, ma alla fine prese atto della nuova situazione e si dedicò interamente alla famiglia.

Nella comitiva c’era però il figlio del massaro il quale, non avendo gradito la presa di posizione dell’amico, più di una volta ebbe a scontrarsi con lui al punto che costrinse il padre a licenziarlo ponendo l’alternativa: o l’ex amico o lui, tutti e due insieme a lavorare non era possibile. Il massaro, sia pure a malincuore, per evitare problemi in campagna, obbedì al figlio. Carlo sperava di prendersi la rivincita andando a parlare direttamente con il padrone. Il giovane invocò il patto che insieme al massaro avevano fatto, in base al quale egli aveva potuto sposarsi. Ma il padrone fu irremovibile non potendo rinunziare ai servizi del suo massaro. Alla fine, messo alle strette, disse: la fedeltà è una virtù del popolo non dei ricchi. Il che sbalordì il povero Carlo che si trovava ora a ripensare alla sua vita. Per fortuna non aveva ancora figli e quindi con i lavori saltuari riusciva in qualche modo a tirare avanti.

Tuttavia la serietà prima o poi paga. Di questo ragazzo si parlava molto bene in giro tanto che si interessò a lui un insegnante di scuola professionale, che non era un agrario ma aveva piccoli appezzamenti di terreno. Il professore lo chiamò e gli affidò la conduzione dei suoi terreni. Sul viso di Carlo tornò il sorriso perché poteva tornare a soddisfare le esigenze della famiglia e soprattutto non doveva vivere nella condizione di incertezza.

Frequentando però il professore per lui si aprirono nuove prospettive culturali. Molto spesso si fermavano insieme a chiacchierare e un giorno Carlo tira fuori quella scritta sull’arco di sant’Andrea. Il professore fu contento di dialogare con questo giovane senza titolo di studio ma con tanto desiderio di imparare. Ed eccoli una domenica tutti e due sotto l’arco di sant’Andrea a leggere insieme quella frase.  E qui il professore fa a Carlo una domanda inaspettata: ma quella frase parla della fedeltà del popolo o di Federico? Carlo ovviamente non seppe rispondere. Allora il professore spiegò che fidelis era riferito al popolo: Federico aveva capito che per il popolo andriese la fedeltà a un impegno era una virtù fondamentale, per questo anche se le altre città si ribellarono quando lui era lontano Andria gli rimase fedele. Tuttavia aveva intuito che essa era una virtù commutativa, reciproca: se un contadino andriese dava una parola quella era impegnativa per se e costringeva moralmente l’altro a rispettarla. Partendo da questa considerazione egli volle dimostrare la sua affezione alla città facendo seppellire in Andria due giovani mogli, pur essendo egli molto legato a Foggia e a Barletta, e soprattutto fece costruire il più bel castello del suo regno. Pensa, disse rivolto a Carlo, che l’imperatore di castelli ne costruì oltre duecento e tutti erano funzionali alla realizzazione di quello di Andria. Infatti dopo aver realizzato la torre (ottagonale) di monte sant’Angelo decise di far completare Castel del Monte. Un vero gioiello.

Carlo approfittò a questo punto per chiedere: se caratteristica del popolo andriese è la fedeltà perché il padrone e il massaro non avevano mantenuto la parola data? Hai detto bene, rispose il professore, la fedeltà è caratteristica del popolo. I ricchi, gli aristocratici si ritengono superiori al popolo e quindi pensano che per loro le norme, i costumi non esistono. Obbediscono solo ai capricci. Allora mi spieghi cosa vuol dire quella parola “affixa”? chiese Carlo. Bravo, rispose il professore. Quel verbo sta a significare proprio la reciprocità. Affigo: inchiodato, saldato, piantato. E attenzione, Federico non dice piantato nel cuore, parla delle midolla, cioè la fedeltà degli andriesi è diventata “organica” alla personalità dell’imperatore, ecco perché ricambiò con la esenzione dal pagamento delle tasse. Non solo: nella costruzione del Castello fu utilizzato solo personale saraceno (per lo più soldati) perché destinato a morire in una delle tante guerre e quindi impossibilitato a diffondere il suo segreto. Solo gli andriesi furono tuttavia utilizzati nelle cave di pietra e come taglialegna. Scritto tutto questo sull’ingresso della città era un avvertimento per i forestieri: gli andriesi sono fedeli alla parola data ma questo richiede reciprocità.

Questo racconto colpì particolarmente Carlo tanto che si permise di fare un’amara considerazione sul presente quando questa regola aurea non è più rispettata: prima bastava una stretta di mano per stringere un patto che tutti poi onoravano, ora non basta un atto scritto perché ognuno si senta obbligato. La fedeltà non è una virtù isolata, replicò il professore, essa comporta un sistema di vita coerente basata sulla stima reciproca: questa è la civiltà. Quando c’era l’aristocrazia gli appartenenti ad essa si credevano uomini e gli altri erano servi. Non a caso Federico II di Svevia parlò di nuova società di diritti. Questo disegno legislativo prese l’avvio dopo aver conosciuto il popolo andriese? Mi piacerebbe immaginarlo. Ora ci sono i potenti e i semoventi che si credono superiori agli altri: basta una divisa, qualunque distintivo che ci si crede superiori. Ma il popolo non è ingenuo, capisce che quella differenza tra gli uomini si chiama arroganza.

Mercè, Dio, chè i miei giorni ho male spesi

In trattar leggi tutte ingiuste e vane,

senza la tua, che scritta in cor si porta.    (Cino da Pistoia)

domenica 10 Gennaio 2021

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