Cultura

I confetti per la Madonna

Vincenzo D'Avanzo
Un tempo bastava poco per divertirsi e ogni festa aumentava lo spirito comunitario
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Giuseppina era una vecchietta avanti negli anni. Abitava Abbasc a la Chiavoir (piazza Ruggero settimo) dove il marito aveva una bottega di fabbro. Era una delle botteghe storiche, discendente da quelle antiche che hanno fatto la storia di quella zona: la Chiavoir, espressione che poi è rimasta indicativa solo della piazza. La bottega del marito era una delle diverse esistenti nella zona specializzate soprattutto nel forgiare le chiavi per i portoni di una volta. In quella piazza anticamente abitava anche la custode addetta ad aprire e chiudere la porta di Andria (la porta santa).

Giuseppina quella mattina si era alzata di buon’ora: era il giovedì grasso e aveva detto alla figlia rimasta in casa (gli altri tre si erano sposati) che dovevano uscire per andare a comprare i confetti per i figli e soprattutto i nipoti. Era una tradizione che lei aveva ereditato e che non intendeva interrompere. Allora i confetti erano rari e si mangiavano solo a carnevale avendo l’accortezza di conservarne sette per la visita ai sette “sepolcri” del giovedì santo.

Prima di uscire fecero la lista degli “aventi diritto” compresa l’infermiera che veniva a fare le iniezioni in casa e il sacrestano che le conservava sempre la sedia in prima fila la domenica. Ad ognuno di quelli compresi nell’elenco stabilirono la quantità dei confetti da mettere nella busta. L’unica divergenza con la figlia fu sulla qualità dei confetti per le due nuore che dovevano essere i migliori. Prima Giuseppina spiegò che trattando meglio le nuore ne avrebbero tratto benefici anche i figli. Davanti alla resistenza della figlia si decise che i sacchettini uguali per tutti. Controllato il portamonete (un fazzoletto con due nodi) si avviarono alla bancarella di piazza Imbriani evitando quella di vicino casa Abbasc alla Chiavoir perché conoscevano il padrone e non voleva che si sapesse in giro quanto avesse speso per i confetti. Alla fine si trovò in tasca qualche moneta avanzante e comprò i confetti per il marito al quale piacevano quelli a forma di frutta. Giuseppina non l’aveva messo nel conto perché sapeva che non poteva mangiarli per via del diabete ma  si decise a comprarli con la riserva di darli alla presenza dei nipoti, i quali, attratti dalle forme particolari, avrebbero dato l’assalto alla busta del nonno. Fatti i conti chiese all’ambulante una bustina con 10 confetti in omaggio. Il commerciante aderì volentieri alla richiesta, ma curioso chiese perché proprio 10. Giuseppina, sorridendo, rispose che la cosa non lo riguardava.

All’inizio di via sant’Angelo una vecchia edicola con l’immagine della Madonna  dei miracoli con ai lati due angioletti adoranti mentre sotto si vedeva l’immagine di san Michele arcangelo con la spada sguainata era oggetto di devozione da parte dei fedeli. Era una immagine molto cara agli andriesi con il soprannome di “Madonna di mezz’agosto” in virtù della consuetudine di riunirsi ai suoi piedi per festeggiare la Madonna il 15 agosto ( per la verità questo incontro di preghiera si verificava presso tutte le edicole della città: la recita del Rosario e poi una festicciola comunitaria). Immaginate il profumo celestiale che Andria emanava in quella circostanza. Essendo l’edicola antica di almeno un paio di secoli la presenza di san Michele fa memoria di un’antica chiesetta immediatamente fuori le mura che portava il nome di san Michele al lago (poi sostituita dall’attuale chiesa di sant’Angelo). Il fatto che si parlasse di san Michele al lago ci fa comprendere anche perché si dicesse: Abbasc a la Chiavoir. Si nota ancora oggi la pendenza in quella zona e allora quando pioveva si trasformava in un laghetto raccogliendo le acque che provenivano da Monte Faraone. Non a caso un po' più su tra via Poli e via Salvator Rosa c’era u Pondcidd, che  dà il nome alla zona: era un piccolo ponte pedonale che serviva ad attraversare l’acqua che si raccoglieva.

Giuseppina aveva assunto il compito, con altre donne della parrocchia, di accudire a turno alla pulizia della edicola, all’accensione della lampada ad olio (prima che arrivasse l’energia elettrica) e al cambio dei fiori freschi, prima che arrivassero quelli di plastica. Quella settimana toccava a lei e quindi aveva pensato di portare anche i confetti alla Madonna: dieci per le ave Maria di una “posta” del Rosario. Fu felice il sabato di carnevale quando riuscì a racimolare un mazzetto di fiori di campo che mise nel portafiori e alla fine, seminascosta, depositò la bustina di confetti.

Fino alla domenica i confetti rimasero lì. Ma la bustina non sfuggì al parroco, quando passò davanti per recarsi in chiesa per la messa domenicale.

Il sacerdote era molto popolare e abituato a usare il dialetto anche durante le prediche, lo faceva per farsi capire da tutti, diceva. A un certo momento della predica si alza il camice e tira fuori dalla tasca la busta di confetti. Io non so chi l’abbia messo ai piedi della Madonna, disse sornione mostrandola a tutti, chi è stato forse vleiv accattass la Madonn p quatt cmbttidd. La Madonna ha bisogno di preghiere e opere buone, disse concludendo la predica, sempre breve, perché quell’ottimo sacerdote aveva capito che i suoi fedeli volevano poche parole ma piene di significato.

Giuseppina, come sempre in prima fila, prima arrossì consapevole che il parroco sapeva chi sarebbe andato a sistemare l’edicola. Ma dopo la messa si recò in sacrestia e si lamentò con  per aver prelevato quei confetti che potevano essere presi da un ragazzino povero. “Chiù povr d maie cià stè. A maie cià l foic assaprè l combitt?” Disse ridendo quel prete che povero era veramente e che aveva messo al centro del suo apostolato proprio i poveri: la chiesa di sant’Angelo il giorno di san Giuseppe si trasformava in una grande mensa per i poveri a base di timballetti e pollo arrosto, frutto della carità parrocchiale. Sorrise contenta Giuseppina, capì il messaggio del sacerdote e il giorno dopo fece arrivare a don Cosimo un sacchetto di confetti più consistente. Il martedì tutti i confetti furono distribuiti ai ragazzi durante la festa delle mascherine sulla strada della parrocchia.

Era ancora in corso la festa quando un gruppo di giovani passò in corteo proprio dalla piazza d la Chiavoir con un carretto sul quale era adagiato un pupazzo che rappresentava il carnevale morto. Attorno al carro tanti giovani e uomini vestiti da donna che si strappavano i capelli per la grave perdita. Immediatamente si formò la ressa ai lati del corteo. Semel in anno licet insanire (una volta all’anno è possibile fare lo scemo). Ma perché farlo assumendo gli aspetti femminili ondeggiando sui tacchi delle mogli, con seni sproporzionati e gambe storte e quintali di rossetto resta un mistero.

Sembrava una tranquilla sia pur vivace manifestazione quando da un balcone parte una manciata di confetti del tipo apposta della Ptrscioit, quelli abbastanza grossi da essere duri come le pietre. Durante la Ptrscioit si sa da dove partono i confetti ma non si sa dove vanno a finire. Uno arrivò dritto sul naso del priore che dirigeva il funerale. Fu il segnale della baraonda. I mascherati risposero alla provocazione e furono due minuti di finimondo. Sembrava avvantaggiarsi l’ambulante che era lì a vendere i confetti. Infatti, dopo i primi acquisti, i giovani cominciarono a prendere senza soldi i confetti lanciandoli contro tutti i balconi che capitavano a tiro. Alla fine si contarono i danni: due vetri di finestre rotte mentre il danno dell’ambulante fu risarcito con una questua tra tutti i partecipanti al corteo. Semel in anno licet insanire.

Bastava poco allora per divertirsi e ogni festa aumentava lo spirito comunitario. Il carnevale mette allegria e ci introduce alla quaresima che ci ricorda che siamo uomini e non coriandoli.

 

 

domenica 14 Febbraio 2021

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Michele pistillo
Michele pistillo
3 anni fa

Grazie, l'edicola a cui si fa riferimento in questo articolo è posta sulla facciata di casa mia ????
In questi anni me ne sto prendendo cura e lo farò sempre….