Cultura

La storia su quella scalinata

Vincenzo D'Avanzo
Palazzo di Città di Andria è tra i più bei palazzi comunali dell'Italia ed era stato ricostruito (ex convento) perché fosse la sede del popolo e il popolo andriese, per la sua tradizione civile e religiosa
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Era il 16 luglio del 1987, festa della Madonna del Carmine, con la Quale avevo dialogato tante volte quando frequentavo il seminario. Questa circostanza colse come un segnale don Mario Melacarne, l’indimenticato direttore spirituale, quando mi inviò i graditissimi auguri per la mia elezione a sindaco. Proprio durante quella frequentazione alla domanda di noi ragazzini per capire il motivo della grandiosità e imponenza delle sedi di culto ci fu risposto: gli edifici devono essere coerenti con la funzione loro riservata, pertanto se deve essere la casa di Dio non può non essere grandiosa come si conviene alla sua Dignità. L’affermazione risente un po' della psicologia umana, anche se Dio proprio a quello non sta a badare. Anche per questo chi ha criticato la solennità della ordinazione vescovile dell’altro giorno in piazza catuma ha preso un granchio: la Fede deve suscitare emozione perché è un misto di ragione e amore.

Il giorno dopo la mia elezione io  mi trattenni per qualche tempo seduto su una panchina della piazza a contemplare il palazzo municipale nella sua grandezza e armonia, merito del genio del Castellucci, che realizzò quella imponente facciata. Quello di Andria è tra i più bei palazzi comunali dell’Italia ed era stato ricostruito (ex convento) perché fosse la sede del popolo e il popolo andriese, per la sua tradizione civile e religiosa, meritava una casa straordinaria e soprattutto armonica a rappresentare l’unità di intenti che lo deve animare se vuole andare avanti per le vie del progresso. Si era agli albori della democrazia a metà dell’ottocento. Per qualche tempo sarebbe toccato a me l’onore di servire il popolo e mantenere la dignità del palazzo.

Quando fu costruito a fianco il carcere mandamentale (femminile e per prostitute) non si fu in grado di mantenere l’armonia  e ci si rese conto che non era godibile come nella immaginazione del Castellucci. Durante il fascismo poi l’eliminazione degli istituti di democrazia aveva stravolto anche gli interni, eliminando ad esempio l’aula consiliare. Tanto di cappello allora ai sindaci Antolini, Jannuzzi e Marano che, nonostante gli enormi problemi del dopoguerra, ritennero primario riportare il palazzo agli antichi splendori, eliminando il carcere, anche se la costruzione della vecchia sede della polizia urbana non è stata la scelta migliore. Per fortuna il distacco dal corpo principale rendeva la facciata del municipio indipendente. Fu proprio questo ritorno all’antico che indusse probabilmente mons. Lanave ad aggiungere il municipio  insieme alla cattedrale, sul vangelo che teneva in mano San Riccardo nella nuova versione.

Stavo pensando a tutte queste cose con la emozione del primo giorno, ripassando tutto quello che avevo promesso nei 15 anni precedenti facendo il consigliere comunale e ai sogni che mi portavo nel cassetto del cuore, quando passa l’indimenticabile amico Nicola Rella, che, salutandomi, mi ricorda che il mio posto era sopra e non sotto il comune. E così insieme salimmo il sontuoso scalone (Nicola sarà poi il mio collaboratore più diretto). Appena sopra sentii un vigile dire a un uomo: ecco il sindaco. Lo diceva a un uomo maturo che poi saprò chiamarsi Matteo: aveva saputo che era stato eletto un nuovo sindaco e voleva salutarlo subito.  Io non lo conoscevo ed egli non mi conosceva. Lo feci accomodare nello stanzino che separa il gabinetto del sindaco dalla segreteria generale, che sarà per qualche giorno il mio ufficio.  

Appena seduto Matteo mi fece gli auguri e poi aggiunse: si saliut saup a u palazz chiù impurtant d’Andrie fatt honour. Fu una autentica investitura di responsabilità.

Io rimasi in silenzio mentre il cervello girava come un frullatore. Allora Matteo riprese raccontando tutto quello che aveva passato nella sua vita. Mi confidò che aveva cominciato a lavorare quando aveva sei anni: la mamma andò a parlare con il proprietario di una bottega dove si impagliavano le sedie e si facevano i panieri di vimini. Ricordava Nicola che u mest non lo voleva perché troppo piccolo e la madre ribadì: proprio per questo lo devi prendere, questo è un lavoro dove servono le mani piccole. Cominciò così la sua vita di lavoro costante interrotta solo dalla chiamata in guerra nel momento più drammatico. Dopo qualche mese infatti ci fu l’armistizio e molti militari si trovarono abbandonati a se stessi. Con un paio di amici decise di fuggire e rientrare in Andria. Fu un calvario il ritorno: camminavano solo di notte e di giorno erano costretti a nascondersi, mangiando quello che capitava. Anche in Andria non uscì per un po' di tempo fino a quando fu nominato commissario al comune Jannuzzi: la situazione allora si calmò e potette riprendere il lavoro in campagna con il padre: infatti l’esperienza di impagliatore era terminata appena in condizione di andare in campagna. La mamma aveva preso l’iniziativa per togliere il figlio dalla strada non potendolo iscrivere a scuola. Matteo parlava, parlava, parlava, ma la mia mente era ferma a “u palazz chiù impurtant” e a quello che dovevo fare per onorarlo. A un certo momento sento dire: vleiv nu sindc cumm a Talein (Di Molfetta, l’operaio diventato sindaco all’inizio degli anni sessanta) ca ioiv alla vanna nost. E mi raccontò che erano i lavoratori che dovevano essere aiutati, naun l maggabbnd. 

Fu sfortunato Matteo anche in amore: la fidanzata morì a vent’anni di polmonite. Ci bella mnenn, esclamò più volte Nicola, che, pur essendosi sposato e generato 4 figli, aveva il pensiero fisso a chedda mnenn. Tanto per intervenire gli chiesi se la moglie sapesse di questo amore non dimenticato. Si, l’ho detto subito e lei mi ha capito, tanto che quando lei capita al cimitero va anche lei a portare un fiore sul “carnaio”, dove ora si trova quello che resta del suo corpo. A chi le chiede se non è gelosa lei risponde: fu quella donna a farlo diventare uomo tutto d’un pezzo e lo regalò a me. A questo punto, anche perché fuori dallo stanzino si era creato la ressa degli adulatores, che ti applaudono quando sali e ti ignorano quando scendi, chiesi a Matteo se potessi fare qualcosa per lui. No, disse lui sempre in dialetto, sono venuto per ricordare che il sindaco deve pensare ai poveri perché i ricchi se la cavano da soli.

La frase mi colpì tanto che il giorno del giuramento feci un gesto a mio modo significativo: portai a Bari come testimoni (allora il giuramento si faceva in prefettura) un pullman di braccianti, cosa che colpì il prefetto che lo evidenziò nel suo intervento: per la prima volta, disse. Coniugare il palazzo con il popolo fu l’anima delle dichiarazioni programmatiche  in gran parte attuate in quella stagione che fu di rinascimento andriese grazie a un manipolo di operai della politica.

domenica 26 Settembre 2021

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Raffaele POLLICE
Raffaele POLLICE
2 anni fa

Vincenzo, assolutamente tutto o. K. Questo tuo articolo domenicale sulla nostra Andria Fidelis. Un grande salutone anche ai tuoi futuri interventi. Ciao.

Cristina capogna
Cristina capogna
2 anni fa

Coniugare il palazzo con il popolo,quello che oggi è venuto meno.