Il racconto

Le voci e i rumori

Vincenzo D'Avanzo
L'unico difetto dei tempi odierni è la mancanza di tempo per goderseli. Andiamo sempre di fretta e questo incanaglisce anche i rapporti con gli altri
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Uscendo dalla chiesa pioveva a dirotto nella prima decade di dicembre. In tanti si assieparono giù alla scalinata in mezzo alla strada in attesa che uscisse la bara. Il frastuono cresce a dismisura: i clacson delle macchine erano impazziti. Tutti avevano fretta e volevano trovare un varco per passare. Venti metri prima c’era una deviazione ma a nessuno venne l’idea di utilizzarla. Il povero morto uscì nel frastuono e dovette togliersi di mezzo in fretta, così come era capitato all’arrivo in chiesa tre ore prima quando fu rilevato dalla casa come un pacco. Ormai non abbiamo il tempo di fermarci un attimo nemmeno di fronte ai misteri della vita. In chiesa mancavano diversi parenti intimi: avevano programmato per quel giorno la raccolta delle olive e a nessuno venne l’idea che quella operazione si poteva rinviare per un giorno.

Partito il carro funebre mi siedo in macchina e aspetto che si alleggerisca il traffico. Pensai a quel paesino dell’Abruzzo dove anche i funerali sono delle favole: le campane della chiesa suonano ininterrottamente dalla partenza del corteo dalla casa fino all’arrivo in chiesa mentre ai bordi della strada si affaccia tutto il paese: unico segno di vita in una atmosfera surreale dove il silenzio ti coinvolge. Il turista chiede: ma chi è morto? E pronto l’interpellato ti racconta la storia del malcapitato, le sue gioie e i suoi dolori. Sono tutti una famiglia!

Avviai la macchina per rientrare a casa ma quello che si sente è sempre un assordante rumore: clacson, rombi di motore, urla. Devi dimostrare tutta la tua abilità nella guida per evitare macchine e pedoni e qualche bicicletta che ti sbuca da tutte le parti. E ti fermi a pensare a quando solo in prima mattinata e nel tardo pomeriggio sentivi le ruote dei traini scricchiolare sulla brecciolina che costituiva il pavimento della strada. Lo schioccare nel vuoto du scrscioit perché il cavallo non si doveva toccare era il divertimento di qualche finzinist a spasso p la sciarrett.

E poi silenzio interrotto all’alba dalla voce du frnoir: cià avva fè r poin? Le donne interessate immediatamente si precipitavano fuori per prenotarsi e farsi dare la tavl sulla quale allineare le pagnotte da due chili. “Culì, voit ca fazz piur na tiedd d past i patoin, marraccumann d nan fall abbrscè”. Tranguill Mariè, rispondeva sornione il fornaio cosciente che il rischio era determinato dall’olio che egli rubacchiava dal tegame. Mariett lo sapeva e abbondava con l’olio. Il fornaio continuava il suo giro mentre Mariett tornava a trmbè r poin. Il pane durava per tutta la settimana e il fornaio aveva organizzato i turni delle sue clienti.

Poi calda si sentiva la voce du caffettirr. Il caffè era un lusso e i bar non erano frequenti. Solo in rare circostanze le famiglie se lo potevano permettere. I comuni mortali lo assaggiavano quando moriva qualche familiare. Allora si faceva la veglia al morto, occasione anche per ripercorrere la sua vita. Ci bell’omn! Quand ioive aggarboit! e via con le carinerie che gli erano state negate da vivo.

Dopo il caffettiere il silenzio era rotto dal lattaio. Dopo la guerra non passava più il pastore con le pecore o le capre per mungere il latte davanti alle clienti. Ora il lattaio passava con la bicicletta. Anche il latte era un lusso: dovevi stare proprio male perché ti facessero un bicchiere di latte caldo.

Il silenzio tornava padrone della strada tanto che in casa si parlava sottovoce essendo quasi sempre la porta aperta per fare entrare l’aria che doveva attraversare tutte le stanze essendo disposte una dietro l’altra.

Mariett poi era abitutata a farsi i fatti suoi e raramente usciva fuori casa durante l’inverno, salvo quando doveva andare a riempire la quartoir d l’acqu. Era il momento più atteso anche se faticoso. A volte un percorso abbastanza breve aveva bisogno di ore per essere fatto. Infatti quella era l’occasione per incontrare qualche comara o salutare qualche parente, chiedere alla vicina un po’ di prezzemolo o uno spicchio d’aglio: ogni fermata prendeva il suo tempo perché quello era il momento della informazione: Specie le donne erano analfabete (non è che i loro uomini avessero fatto r scoul fattizz) e quindi la trasmissione delle notizie era orale tra le persone o, quando le autorità avevano da comunicare qualche notizia, ecco allora il banditore con il suo rullo di tamburo. Sul tardi, almeno una volta la settimana, dava voce u cnzapiatt. Il piattaio era indispensabile per aggiustare i piatti che si rompevano, gli orci, r fasoin. Essi si portavano appresso tutto l’occorrente per lavorare e subito facevano le riparazioni perché nulla si buttasse. Quando i soldi erano pochi bisognava organizzarsi per sopravvivere.

Un giorno la figlia di Mariett protestò con la mamma perché si mangiava in un unico piatto grande: a maie mitt ind a u salzaridd. La madre l’accontentò: prese il piatto piccolo, le fece la porzione e lo mise davanti. Il segno della croce assolveva a una duplice funzione: ringraziare il Padreterno per il cibo e dare il via per mangiare. La figlia finì presto la sua porzione mentre i fratelli stavano ancora mangiando. Si vergognava la signorinella di chiedere un altro poco e si mise a guardare gli altri perché il padre ci teneva che dalla tavola ci si alzasse tutti insieme. Si accorse allora che i genitori mangiavano piano mentre i fratelli facevano all’angrapoit. Era la delicatezza dei genitori poveri: sapevano che quanto era sulla tavola non era sufficiente e quindi consentivano ai figli di saziarsi, tanto loro si sarebbero accontentati di fare la scarpetta con il pane. La ragazza se ne accorse del gioco dei genitori, fece passare qualche giorno, poi disse alla mamma: sa stè u salzaridd adacchsè n spccioim proim a fè l piatt. Bugiarda!

Diventata più grande la ragazza si accorse che la sera un giovane stazionava sempre a una decina di metri da casa sua. Lo disse alla mamma ma questa le suggerì di mettersi dietro la finestra per vedere se guardava verso casa loro. Quando ne ebbero la conferma la mamma mandò la figlia da una zia alla punta della strada e lei prese il suo posto dietro la finestra. Appena partita la ragazza la madre si accorse che il giovanotto prendeva la stessa direzione. Immediatamente esce anche lei per andare a riprendere la figlia. Di ritorno si fermarono davanti a u scarpoir per chiedere a mest’Antonie se conosceva il giovane. Il calzolaio immediatamente raccontò vita opere e miracoli del giovane e della sua famiglia. Stann bunn, concluse riferendosi alle loro sostanze. Appresa la bella notizia la ragazza cominciò a uscire spesso dalla porta a sbattere il panno della polvere, trasmettendo l’idea che ella era a modo e offrendo allo spasimante l’occasione di farsi avanti. Fino a quando una sera si accorse che il giovanotto stava avvicinandosi. Con la mano fece il gesto di attendere che andava a lasciare lo straccio. Fu deluso il giovane quando al posto della ragazza sulla porta comparve la mamma: sind, giovinò, stè doue seriament u vu scquè (giocare)?. Domanda assurda alla quale il ragazzo diede la risposta più ovvia. Aggiunse poi, su richiesta della donna, che egli d’inverno andava in campagna con il padre mentre d’estate girava per il quartiere vendendo u grattamarianne. Signò, sond aggarboit, addmann a cià vu. A questo punto la mamma chiama la figlia e prima di lasciarli qualche secondo da soli si raccomandò di fare presto perché era l’orario in cui poteva tornare il marito. Il ragazzo obbedì e da quel giorno cominciò a passare spesso davanti alla casa della ragazza, che usciva sempre con una scusa qualsiasi. D’estate poi era d’obbligo u grattamarianne e il giovanotto ci metteva del tempo per grattare il ghiaccio. Se ne accorsero i vicini della “tresca” e, per evitare che il padre lo venisse a sapere dagli altri, la madre costrinse il ragazzo a presentarsi in casa e a portare la famiglia.

La strada faceva parte integrante della vita dei singoli: era lo spazio dei commerci e degli amori, lo spazio in cui le voci si ascoltavano, dove i bambini crescevano, dove le relazioni interpersonali erano favorite. Tutti si conoscevano e tutti sapevano tutto di tutti. Erano migliori quei tempi?

Quando andavo a scuola mi chiedevo spesso come si doveva vivere ai tempi di Dante e Beatrice o di Giulietta e Romeo. Ma poi puntualmente concludevo che i tempi di Vincenzo e Maria erano di molto migliori e più interessanti. L’unico difetto dei tempi odierni è la mancanza di tempo per goderseli. Andiamo sempre di fretta e questo incanaglisce anche i rapporti con gli altri.

Un giorno, quando ero adolescente, chiesi a don Mario Melacarne (direttore spirituale del seminario) perché ogni mattina dovevamo perdere mezz’ora in meditazione. Mi rispose che quella mezz’ora avrebbe dato senso a tutta la giornata. Me ne ricordai quando ebbi una qualche responsabilità e mi fu molto utile. Arrivavo puntuale alle otto nel mio ufficio come gli impiegati (?). A differenza loro io mi chiudevo nella stanza e per mezz’ora mi guardavo tutti i fascicoli che l’ottimo Fiandanese aveva già predisposto sul tavolo: fissavo gli obiettivi della giornata che finiva solo quando essi erano stati raggiunti. Con la calma delle idee chiare. L’affanno non fa la Storia.

All’alba del nuovo anno scambiamoci gli auguri, mangiamo lenticchie e melograni (i nostri genitori buttavano le cose vecchie nella speranza di poterle comprare nuove: dal numero delle cose buttate si poteva conoscere il grado di agiatezza raggiunto dalla famiglia), ma poi leggiamoci Gianni Rodari:

Indovinami, indovino,

tu che leggi nel destino:

l’anno nuovo come sarà?

Bello, brutto o metà e metà?

Trovo stampato nei miei libroni

che avrà di certo quattro stagioni,

dodici mesi, ciascuno al suo posto,

un carnevale e un ferragosto,

e il giorno dopo il lunedì

sarà sempre un martedì.

Di più per ora scritto non trovo

nel destino dell’anno nuovo:

per il resto anche quest’anno

sarà come gli uomini lo faranno.

domenica 31 Dicembre 2017

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Carlo Mastrodonato
Carlo Mastrodonato
6 anni fa

Grazie D'Avanzo per questa cronistoria. Sono del 48 . Da mezzo secolo vivo nel centro Italia e questo racconto m'ha fatto rivivere la mia infanzia.