Cultura

L’aiuto al bisogno non deve spegnere la dignità della persona

Vincenzo D'Avanzo
Costa poco rendere felice chi ha provato la durezza della vita
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Erano una sorta di struttura semicircolare fatta di laminati di zinco ondulati, chiusa alle due estremità da portoni di ferro. E’ possibile vederle ancora oggi in montagna utilizzate come bivacco. Al cinema sicuramente tutti le abbiamo viste utilizzate nei campi di prigionia e in alcuni lager nazisti: le baracche di Nissen. Si capisce subito che non dovevano essere molto confortevoli, per questo il loro uso doveva essere temporaneo. Il caldo d’estate e il freddo d’inverno incidevano non poco sulla salute degli abitanti.

In viale Virgilio in ognuna di queste baracche vivevano stabilmente diverse famiglie andriesi in una promiscuità da fare spavento, prigioniere della miseria. Non mi attardo nella descrizione delle condizioni igieniche. Spesso la loro vita si svolgeva all’aperto tra la sporcizia più varia. Trattandosi poi di famiglie numerose ciascun lettore potrà immaginare come vivevano i bambini privati di tutto dal gioco alla scuola. In una di queste baracche vivevano con gli otto figli Giacinto e la moglie Carmela. Per la verità erano vissuti tutti i componenti della famiglia perché Ciacind prima era stato in guerra e poi tornava solo per dormire perché di giorno era sempre in giro pu trenet a vendere la carvned (carbonella) che racimolava in giro con gli scarti dei forni o che lui stesso faceva bruciando quel po’ di legna che riusciva a raccogliere per le campagne circostanti. Nera era la vita e nero tornava lui tutte le sere, nero in volto e nero dentro: i pochi spiccioli non bastavano mai e i bambini avevano bisogno di vestiti e di cibo.

Approssimandosi l’inverno del 1949 uno dei figli prese la polmonite. Il medico fece del suo meglio per curarlo non essendoci la possibilità di ricoverarlo in ospedale dove peraltro mancava la pediatria. Il bimbo non ce la fece. Il medico rimase scosso da quella situazione di degrado. Anche la gente prese coscienza della condizione disumana nella quale alcuni andriesi erano costretti a vivere. Ma le condizioni generali erano quelle. Occorrevano nuove case, tante case. Il narratore ricorda che quando andava alla Università gli avevano detto che gli italiani erano più mammoni: mentre in Germania la ricostruzione puntò sull’apparato industriale in modo che i tedeschi lavorando potevano dopo farsi la casa, in Italia invece si puntò sulla casa e tanti ebbero un tetto ma senza lavoro. Oggettivamente da noi il problema all’epoca era drammatico. Soprattutto da noi nel sud dove il popolo era ancora chiamato plebe se non plebaglia.

Tuttavia la morte di quel bambino e di tanti altri (sembrava una gara tra la vita e la morte) scosse la città. Durante quell’inverno Andria si imbiancò spesso aggiungendo ulteriori disagi ai più poveri. Don Michele Doria, che da giovane era stato collaboratore del Vescovo mons. Bernardi agli inizi degli anni trenta, ricordava a tutti una vicenda di cui era stato coprotagonista. Andria non aveva ancora un ospedale che fosse tale. Allora il vescovo Bernardi decise di fare una questua tra le famiglie abbienti per la costruzione di un nuovo ospedale: in piena estate, vestito dei solenni paramenti episcopali cominciò a bussare alla case di piazza catuma e di via Cavour facendo la questua. Invano don Michele si offrì di andare lui di casa in casa. Ma il vescovo fu fermo nel suo proposito: tocca a me stendere la mano, rispose, quasi a sottolineare la necessità che gli uomini responsabili si dessero da fare per risolvere il problema. Furono raccolte in tal modo 9 mila lire, tutte depositate in banca. Un giorno però esse furono prelevate, (in maniera poco ortodossa- si racconta) per acquistare la prima autoclave del vecchio ospedale.

Don Michele raccontava questo episodio in giro per sensibilizzare i detentori del potere e della ricchezza a rendersi disponibili per la realizzazione di opere essenziali a cominciare dalla pediatria. Intorno a lui si era creato un gruppo di giovani professionisti aperti alle esigenze del sociale. E fu una notte di quell’inverno che nacque il reparto pediatrico del nostro ospedale. Capitò che mentre Andria era tutta imbiancata moriva nella sua abitazione la vedova del Generale Lorenzo Bonomo, che già aveva profuso tutto il suo impegno a favore del nosocomio andriese soprattutto durante la guerra. Don Michele e il gruppo di professionisti (tra cui il medico che aveva visitato il bambino) erano a vegliare la salma insieme ai figli. Tra una preghiera e un ricordo riemerse la memoria di questi bambini morti per il freddo e la mancanza di igiene. A questo punto il prof. Vincenzo Bonomo, che evidentemente ne aveva già parlato in casa, annunciò che era intenzione della famiglia contribuire in modo cospicuo alla realizzazione del primo padiglione della pediatria che andrà poi sempre più allargandosi sempre con l’intervento generoso della famiglia Bonomo.

Intanto le condizioni economiche di Giacinto erano migliorate. Per alleviare le gravi condizioni della disoccupazione in Andria si fecero molti cantieri di lavoro. Fu una svolta nella politica sociale della città. Niente contributi assistenziali ma possibilità di lavoro per tutti. La dignità dell’uomo passava dal lavoro non dal sussidio o comunque lo si voglia chiamare. Mons. Di Donna ci teneva molto a questo: l’aiuto al bisogno non deve spegnere la dignità della persona. Fu allora che si cominciarono a mettere mano alle opere pubbliche (villa comunale, sistemazione delle strade ecc.) con i cantieri di lavoro. E Giacinto lasciò il lavoro sporco della carvned e cominciò ad inanellare un cantiere dopo l’altro e così migliorò la sua condizione fino a quando riuscì ad avere un villino proprio su viale Virgilio (dove furono distrutte le baracche) e si trasferì con tutta la famiglia, un paio di figli, i più piccoli, riuscirono anche ad andare a scuola.

Una sera stavano mangiando quando Carmela si rabbuiò in viso. Il marito percepì subito il cambiamento di umore e chiese spiegazioni. La moglie si era ricordato in quel momento di un suo cugino che, rimasto solo, viveva per strada e solo la notte riusciva a trovare un giaciglio in un buio ampio locale a Porta la Barra illuminato solo da un paio di lumini ad olio. Chi passava da quelle parti rimaneva sconvolto nell’intravedere queste ombre con la barba incolta e a piedi scalzi aggirarsi tra i tavolacci alla ricerca di un posticino dove raggomitolarsi. Non sempre si riusciva a trovare posto. In quei casi era costretto a dormire dove capitava. Solo più tardi fu realizzato un dormitorio in via Fornaci. “Niue moue stoim bunn, Rccard (il cugino) inveic stè dè abbandunoit. Il marito guardò i figli, i figli guardarono il padre. Niue stoim abtuoit s ste stritt. Hamma vdaie c s n voul mnoie doue?

Così fecero e anche Riccardo tornò a sorridere. Anche a Riccardo venne voglia di lavorare e cominciò a dare il suo contributo al menage familiare e finalmente riuscirono a comprare le biciclette. Intanto il primo dei figli di Giacinto era diventato grande e cominciava anche lui a portare qualche soldo. Una domenica chiese di andare a vedere la partita allo stadio. Spesso sentiva le urla dei tifosi e voleva andare a vedere cosa succedeva. Alla fine decisero che sarebbero andati il padre e il figlio. Fu la prima volta per tutti e due. Rimasero impressionati per quella moltitudine urlante. Al ragazzo piaceva il pallone: da piccolo era stato abituato a tirare calci a qualunque cosa avesse una forma che lontanamente gli rassomigliava. Alla fine il pallone se lo comprò e fu una festa anche per i fratelli.

Costa poco rendere felice chi ha provato la durezza della vita. Chi ha conosciuto il dolore cerca di alleviare quello degli altri.

domenica 18 Marzo 2018

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