Era una tradizione fissa nel tempo: la notte in cui si portava la Madonna dei miracoli a “villeggiare” presso il suo santuario, alla casa di Ninetta “abbasc a Cndrdd” alle due si riunivano le amiche della parrocchia di san Nicola: due biscotti fatti in casa, una tazza di caffè d la ciculateir e subito verso via Fellecchia, dove sul prospetto di una casa dentro un arco di tufo e una mensola di pietra di Trani era (è) conservata una lastra di zinco su cui ad olio è dipinta la Madonna dei Miracoli sospesa sulla città di Andria. La fattura del dipinto non è pregevole, anzi alquanto approssimativa, ma la simbologia è di grande rilievo: i lineamenti della città sono ombrati dal manto della Madonna che la protegge. L’importanza della edicola è anche nella data presumibile: pare risalga al mille e settecento. Fondamentale era la fiducia degli andriesi verso la loro Protettrice. Era il tempo in cui il popolo, cosciente delle difficoltà nella soluzione dei suoi problemi si affidava ciecamente a chi tutto poteva.
Simili raffigurazioni si trovano nella chiesa dell’Annunziata e nella stessa Cattedrale. Recitato il Rosario o una parte di esso, al rumore degli spari (che segnava l’uscita della Madonna dalla Cattedrale) tutti si riversavano al quadrivio di sant’Andrea per incanalarsi nella processione. Dire processione è una parola elegante, in realtà si tratta(va) di un popolo che con uno spontaneo ordine disordinato cercava di essere più vicino possibile alla Statua della Vergine. Se nella confusione le amiche si perdevano la regola era che dopo la messa tutte si dovevano trovare vicino alla fontana in piazza san Pio X per ritornare insieme alla casa di Ninetta dove il nonno avrebbe fatto trovare già puliti e freschi i fichi d’india.
Quell’anno le cose si complicarono: nell’inserimento occasionale proprio Ninetta si perse e si accinse a seguire senza le amiche la processione. Ma c’era la sorpresa: Ninetta si trova a fianco di Giovina, una vecchia amica con la quale aveva frequentato il corso di ricamo in casa proprio Giovina, la cui mamma era molto brava come ricamatrice.Le sue specialità erano il pizzo e il tombolo indispensabili per un buon corredo. Con quanta velocità la mamma di Giovina appuntava gli spilli sul disegno, intorno ai quali poi incrociava i fili sul tombolo, che era un grosso cilindro imbottito che teneva davanti a se suscitava stupore nelle alunne e in chiunque la osservava.In questo modo realizzava complicate geometrie oppure decorazioni floreali. Poveri si era allora, ma il corredo doveva avere pezzi d’arte, che magari poi non si usavano ma erano tuttavia occasioni di lite quando a fine corsa dovevano essere divisi tra gli eredi. Altrettanto ricchi dovevano essere “l cngirt” di oro da mettere il giorno della festa.
A certi matrimoni comparivano delle signore agghindate da tanto oro da sembrare madonne in processione. Appena la vide Ninetta si buttò al collo in un abbraccio festoso. Saluti di circostanza, poi la domanda fulminea: come mai appresso alla Madonna? In chiesa non ti vedo mai, disse con quella curiosità tutta femminile (vizio preso al meglio ora dai maschi) di chi non è abituata a farsi i fatti suoi. “La chiess è nu fatt, la Madonn è nolt”. Rispose infastidita Giovina e il discorso sembrò chiudersi lì. Ninetta si inserì nella recita del Rosario ma si accorse che Giovina non apriva bocca. Manco il rosario dici? Le chiese impertinente. “Nan sacc r paraul i doue nan s capisc n’dd” rispose piccata Giovina.
Dopo la Messa durante la quale Ninetta cantava mentre Giovina rimase zitta, fissa lo sguardo sul volto della Madonna. Dio solo sa quali sentimenti possono scaturire da due occhi fissi su un volto. Forse quella preghiera muta era più intensa di quella festosa di quanti la circondavano. Alla fine Ninetta invitò Giovina a incontrare le amiche, ma Giovina si sottrasse all’invito con la scusa che doveva andare giù alla grotta ad accendere un cero. Ninetta si offrì di accompagnarla, incurante che le amiche, come accadde, potessero andare via. Giù alla grotta Giovina accese la candela, poi si sedette e fissò ancora l’affresco della Madonna. Per diversi minuti le due amiche si isolarono nella confusione generale, chiuse quasi in una campana di vetro.
Alla fine risalirono le scale e si avviarono verso Andria a piedi. Durante il tragitto Ninetta non resistette dal porre la domanda: “ti piace molto la Madonna?” Giovina cominciò ad aprirsi: “io non ho studiato e molte cose non le so. So solo ricamare e ancora oggi riesco a fare qualche lavoretto a pagamento. Però mammà m diss quann steiv p mroie: uagnè, c m vù bein nan t si scrdann meie d la Madonn d l mracl. E io da allora ogni anno partecipo a questa processione i port lafghiur ind alla borz.Pure papà ci teneva alla Madonna. Anche lui non andava in chiesa perché non si voleva fare vedere dai compagni comunisti, ma la mattina e la sera si faceva sempre il segno della croce. Nan sapeiv r prghirr ma iidd dceiv ca p la Madonn s capscevn piur senza paraul”. (il narratore ricorda che in quel periodo di accesa battaglia politica molti uomini in nome di una fedeltà al partito allora staliniano conducevano la doppia vita, relegando lo spazio dedicato alla religione nella sfera strettamente privata).
Ninetta fece osservare che lei non capiva la differenza tra il partito in pubblico e la religione in privato. Giovina invece a suo modo lo comprendeva e ricordò un episodio che il padre raccontava sempre. Quando lui era giovane ci fu un furto nella chiesa della Madonna dei miracoli (il narratore ricorda che si fa riferimento a quello del 1958 – in realtà iI santuario è stato spesso oggetto di furti sacrileghi) quando il 2 dicembre ignoti ruppero il vetro che custodiva l’affresco della Madonna giù alla cripta e rubarono tutti gli ex voto d’oro che vi erano custoditi). L’impressione in città fu enorme. Fu un furto maldestro, dal che si capì che non erano ladri di professione ma qualcuno che aveva bisogno di mangiare. Era allora l’epoca delle grandi manifestazioni contadine, l’inizio del processo migratorio, il tempo della miseria generalizzata. Ma toccare la Madonna non si poteva. In tutte le assemblee, ai crocicchi della strade, nelle riunioni di famiglia, ovunque due o tre persone si riunivano la condanna contro quel gesto fu pesante. L’8 dicembre il vescovo mons. Brustia celebrò un rito riparatore presso la basilica gremita fino all’inverosimile. Mons. Brustia, che raramente alzava la voce, quel giorno fu duro nella condanna e caritatevole nello stesso tempo offrendo il perdono: “la Madonna è madre e le mamme dimenticano le marachelle dei figli”, disse quel santo vescovo, l’importante è pentirsi e restituire quegli oggetti dietro ognuno dei quali ci sono storie drammatiche. Persino la mamma di Giovina parlando con le allieve condannò il gesto: “sprioim ca la Madonn l’arp la mend”, disse e aggiunse: “se ha rovinato la tovaglia dell’altare la facciamo noi tutti insieme, disse alle allieve”. E Ninetta se lo ricordava perché si era offerta di portare la stoffa. La pressione della opinione pubblica fu tale che il poveretto (o i poveretti) decisero di disfarsi della refurtiva. Qualche giorno dopo lo stesso vescovo consegnò al superiore della basilica 60 mila lire (prezzo dell’oro, a dimostrazione che si trattava di poveracci) e qualche pezzo d’oro che era rimasto. Nessuno sa come quei soldi siano arrivati nelle mani del vescovo, né il vescovo volle dirlo mai. O forse non poteva considerato il vincolo sacramentale della confessione.
La reazione alla consegna della refurtiva o di parte di essa fu di grande giubilo tra i praticanti ma anche di sollievo tra i presunti atei, quasi che così si fosse allontanata una grande ombra sulla loro “fede” alla quale ci tenevano per tradizione, per rispetto, perché in fin dei conti anche loro si sarebbero sentiti più cristiani se non fosse che questi, specie i preti, erano più vicini ai proprietari terrieri. Per questo all’epoca erano diventati popolari i preti maggiormente impegnati nel sociale (don Zingaro della comunità Braccianti, Mons. Doria di san Francesco) o politici particolarmente dediti alla cura del popolo (sen. Jannuzzi o il sindaco Marano e il capo Talino Di Molfetta).
Concluso il racconto Giovina invitò Ninetta a casa sua per vedere gli ultimi lavori fatti dalla mamma. Felice ci andò Ninetta, sicura che avrebbe visto qualcosa di bello. E quel giorno venne: tutte due aprirono a fatica il pesante “cmoun” dove erano conservati i preziosi lavori. Li presero per mano uno alla volta con delicatezza. Ninetta notò che c’erano due strisce molto belle finemente ricamate con disegno floreale. Giovina non seppe dire cosa fossero ma Ninetta subito realizzò: “non è che le fece per qualche altarino?” “Può darsi – rispose Giovina, ma io non so a chi portarle”. “Non ti preoccupare – disse Ninetta – faccio venire il parroco qui così ne parliamo con lui”. Così fu. Un giorno Ninetta portò il vice parroco, don Mimì Regano, alla casa di Giovina. Insieme osservarono i merletti e il sacerdote alla fine propose: “perché non mettiamo insieme i diversi pezzi e facciamo una tovaglia per l’altare?” Entrambe accettarono, Ninetta mise la stoffa che non fu necessaria al momento del furto, cucirono i ricami e portarono la tovaglia a don Mimì, il quale la guardò stupito. Annunciò loro che la domenica successiva l’avrebbe messa con una cerimonia sull’altare maggiore della chiesa invitando loro a fare da madrine.
Ninetta fu contenta ma Giovina si rattristò. Don Mimì se ne accorse e le chiese il motivo: “i c mammà la vloiv dè alla Madonn?” Disse tutto d’un fiato. Don Mimì le fece sedere e si sedette anche lui. E spiegò: “se si da una cosa al figlio la madre è contenta? E se si da una cosa alla madre il figlio non è pure contento? Bene, allora facciamo le cose giuste: domenica la mettiamo sull’altare maggiore così il Figlio è contento, poi la mettiamo sull’altare laterale della Madonna del Carmelo, così facciamo contenta la Madre”. Su Giovina tornò il sorriso. La domenica dopo tutti in chiesa si ricordarono della mamma ricamatrice e del marito di costei, comunista si, ma che non dimenticava mai di farsi il segno della Croce. Da quel giorno Ninetta ogni volta che andava in chiesa passava a prendere Giovina e tutte e due si sedevano vicino all’altare della Madonna del Carmine e un po’ alla volta Giovina imparò a recitare l’ave Maria. Fu contenta quando don Mimì le disse che quelle Ave Maria servivano per aiutarla ad entrare in Paradiso. E Giovina rivolgendosi a Ninetta disse: “nan sapeiv i nan capsceiv, moue finalmend sond ambaroit”. E Don Mimì, che pure non aveva grandi doti intellettuali ma un grande cuore, chiosò: “Si nasce e si muore, ma se non si sa perchè questo avviene si e veramente poveri.”
Un racconto bellissimo…..
Mi sono venute in mente altre situazione simili degli anni 80 circa
Grazie di cuore è bello spolverare le tradizioni ogni tanto
Adoro queste storie dolcissime piene di dolcezza, di ricordi e questa è piena di devozione e tenerezza. Grazie per le vostre adorabili pubblicazioni. Mi fanno emozionare sempre. Sono piene di valori,quello che al giorno d'oggi mancano ❤
Da brividi.
GRAZIE