Cultura

​Pppein u mest’carrir

Vincenzo D'Avanzo
La guerra ha andamenti imprevedibili: a qualcuno toglie e a qualcuno da. A 800 andriesi ha tolto la vita, a qualcuno ha dato ricchezza (mercato nero), a qualcuna ha dato l'amore, come nel caso di Trsein, la figlia du mestcarrirr
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Pppein facev u mest’carrirr: lo aveva fatto il padre, toccava quindi anche a lui. Durante la guerra poi questo era diventato un mestiere strategico sia per i lavori di campagna, sia per il trasporto merci. Infatti u mest’carrirr costruiva e più spesso riparava i traini o carretti vari. Poiché le ruote dei traini erano protette e rinforzate dai cerchi di ferro, quasi sempre egli aveva vicino un fabbro che all’occorrenza collaborava. Togliere o rimettere il cerchione di ferro dalla ruota del traino non sarebbe stato possibile senza l’intervento del fabbro: infatti costui doveva riscaldare il ferro, facendo attenzione a non bruciare il legno. Per questo frequentemente i due lavoravano all’interno di un cortile anche abbastanza ampio per consentire di allineare i carri nuovi da vendere o quelli da riparare e di essere anche abbastanza riservati rispetto alla strada perché durante la lavorazione servivano le braccia e il cervello, motivo per il quale quando essi non erano connessi qualcosa poteva andare storto e allora si “aiutavano” con una sequela di imprecazioni che era meglio non farle sentire ai passanti occasionali. I familiari erano abituati. Sì perché quando era possibile in questi cortili si affacciavano anche piccoli ambienti che venivano utilizzati dalla famiglia in modo che u mest fosse in qualche maniera sempre presente nella bottega, che era una specie di pronto soccorso per l’attività di campagna. Per fortuna non dipendevano dalla regione, che allora non c’era, e quindi era sempre operativo.

Normalmente queste strutture si trovavano appena fuori i confini della città per essere utili a quanti, andando in campagna, potevano avere bisogno di un intervento urgente e comunque non dare fastidio agli abitanti nemmeno con i rumori: pensate quando si doveva piegare un ferro quanti colpi di martello o di mazza servivano. Poi invalse l’uso che carrozzieri e gommisti erano sparsi in città con il rischio degli operai e passanti occasionali. Uno abbastanza grande era situato nei pressi di piazza “Caduti sul lavoro”(allora piazza santa Croce). Era molto grande e il narratore spesso da piccolo ci andava a giocare (così non si era in mezzo alla strada) e lì da adolescente imparò le canzoni dell’andriese Gino Latilla perché quella rara radio era sempre a tutto volume. Al festival di Sanremo gli andriesi facevano il tifo per il loro compaesano contro Claudio Villa. Per non farci avvicinare alle bambine mest Pppein metteva spesso il disco (cantato proprio da Claudio Villa e Gino Latilla per una volta insieme): “il pericolo numero uno chi è? la donna”. Anche se subito si affrettavano ad aggiungere che “l’incantesimo numero uno, due e tre” era sempre la donna. Ovviamente facevano eccezione le mamme.

Anche durante la guerra il parco era spazio ricreativo fino a quando un bel giorno u mestcarrirr proibì a tutti i ragazzi di entrare “ind a u park” (in virtù di ciò ancora oggi i vecchi indicano quella zona: reit a r park, saup a r Criuc). Nessuno capì la ragione fino a quando la bzzouc del catechismo, sempre informata su tutto, non avvisò i ragazzi che la figlia d Pppein era diventata “signorina” e i maschi in giro potevano creare problemi. Questa scelta se metteva al sicuro la virtù della ragazza, di fatto la sequestrava dal mondo perché non poteva vedere nessuno e dal parco usciva solo con la madre quando questa aveva bisogno di aiuto per la spesa.

Ma la guerra ha andamenti imprevedibili: a qualcuno toglie e a qualcuno da. A tante persone ha tolto la vita (800 andriesi), a qualcuno ha dato ricchezza (mercato nero), a qualcuna ha dato l’amore, come nel caso di Trsein, la figlia du mestcarrirr.

Fino al 1943 gli andriesi conoscevano la guerra solo per sentito dire e perché erano partiti gli uomini. C’erano i tedeschi anche da noi: essi ci toglievano la libertà (forse di più i federali nostrani) ma ci garantivano la pace. Con l’avanzare degli Alleati dalla Sicilia ci fu la guerra anche al sud e cominciarono i primi bombardamenti. Per fortuna Andria fu preservata dai bombardamenti (la preghiera a san Riccardo ci garantisce la suo protezione dalla uerre, dalla peste, dalla foim, da u tramout i dalla mbrvuisa mort, quest’ultima alle condizioni di quel tempo, adesso la vita frenetica ci mette a rischio): solo una volta furono colpiti i depositi di carburante a Largo Torneo e il lampo illuminò tutta Andria. Però le squadriglie degli aerei sorvolavano la città e la gente al solo rumore del loro avvicinarsi era presa dal panico e cominciava a correre senza sapere dove. Mest Pppein non pensò due volte e aprì il parco a tutti, perché lì c’erano dei sotterranei molto utili per nascondersi.

Tra i tanti che si rifugiavano nel parco c’era un certo Michele, un ragazzo di 19 anni che chissà per quale combinazione non fu toccato dalla guerra. Era un bel ragazzo che aiutava il padre in campagna ma che non aveva voglia di fare il contadino. Tutte le ragazze al suo cospetto tremavano, per la paura della guerra ma anche per una qualche emozione. Il ragazzo non sfuggì agli occhi di Tresein che da dietro la vetrina di casa osservava chi entrava e chi usciva. Fino a quando un bel giorno la ragazza disse alla mamma: “doue teng a paghiur. Vaich piur ioie abbasc”. La mamma prima resistette perché non voleva disobbedire al marito, poi capì che il problema non era la paura, allora fu lei a prendere l’iniziativa e disse al marito che era lei ad avere paura e quindi si rifugiavano nei sotterranei. Qui succede quello che si desiderava: guarda tu che guardo anch’io, tocca tu che tocco anch’io. Fino a quando il rombo degli aerei suscitò un tale spavento che la ragazza si trovò abbracciata al ragazzo. Chi avesse preso l’iniziativa non lo si saprà mai. Quello che sappiamo è che, allontanatisi gli aerei, la mamma intervenne decisa a rompere l’incantesimo: “uagnà, c tinn ndziaun serie vabbeine, s naun ste alla largh da figghm”. Il ragazzo preso alla sprovvista balbettò qualcosa di incomprensibile tanto che la mamma lo incalzò: “si capoit?” Il poveretto ammutolì impaurito.

La mamma raccontò tutto al marito che raccomandò alla figlia “d nan fè la frschledd”, anche il ragazzo raccontò la sua strana avventura al padre, il quale aprì subito gli occhi: “uagnà, chidd stann bunn a pizz”. E spiegò al figlio che poteva essere anche l’occasione per cambiare mestiere visto che in campagna non voleva andare. Era usanza allora che prima si combinava il matrimonio poi arrivava l’amore che trovava un ottimo fertilizzante nelle proprietà o nel mestiere. E così cominciarono a frequentarsi. L’amore raccolto nel campo è sempre più duraturo rispetto a quello proveniente dalla infatuazione.

Un giorno però il diavolo provò a sparigliare gli eventi. L’arrivo degli alleati non mutò la situazione di sudditanza rispetto ai militari. Se con i tedeschi si aveva paura allo stato puro, con gli alleati, inglesi in particolare che erano stati accolti come liberatori, la storia non andò meglio. Costoro disprezzavano gli italiani, attentavano alla virtù delle donne e facevano i dispetti soprattutto ai ragazzini esibendo loro grosse stecche di cioccolato che mangiavano fino a “strafocarsi”. Il fratello piccolo di Michele al passaggio di una camionetta di inglesi intenti a mangiare cioccolato si avvicinò chiedendone un pezzo. La fame era tanta che per un boccone si era disposti a tutto. I militari lo provocarono a gesti facendo segno di salire sulla camionetta per prendersi la stecca. Non avevano calcolato che il bambino era così agile che con un salto fu sopra poggiando i piedi sul parafango. La reazione degli inglesi fu cattiva: con i piedi spinsero a terra il ragazzo che rotolò sulla brecciolina e solo un miracolo lo salvò. Per giocare a fare la guerra si perde ogni senso di umanità. Assistette alla scena Michele, il fratello più grande, che senza pensarci due volte prese una grossa pietra e la lanciò contro i militari colpendone uno al gomito. Ci fu il parapiglia. Per fortuna Michele, conoscendo la zona, riuscì a dileguarsi nascondendosi dove poteva, mentre il piccolo fu portato in casa dai vicini per fargli bere un po’ d’acqua per lo spavento.

Per una settimana Michele non si fece vedere in giro mettendo in apprensione la fidanzata. Poi, appena seppe che gli inglesi erano andati via tornò dalla fidanzata alla quale spiegò tutto e riprese a lavorare nella bottega del suocero. Appena imparato il mestiere “du mestcarrirr”, Michele si specializzò nella realizzazione delle botti e nella loro riparazione. In questo modo l’azienda si ingrandiva sempre più. Se si vuole il lavoro del bottaio era più complesso rispetto a quello “du mestcarrirr”. Il bottaio doveva essere abile a curvare a regola d’arte le strisce di legno lunghe e sottili (quelle che oggi chiamiamo doghe) in modo da avere un contenitore panciuto con due piani tondi. Anche qui c’era bisogno della collaborazione del fabbro che doveva cerchiare le doghe per tenerle unite. In più Michele cominciò a realizzare l toin (per pigiare l’uva) i r tnedd per trasportare l’uva raccolta. Appena il suocero vide la bravura del ragazzo disse alla moglie: “è nzist u uagnaun”.

Così Michele e Teresa si sposarono. Il narratore contò fino a tre i figli della coppia, poi li ha perduti di vista. Sicuramente vissero (vivono?) felici e contenti.

domenica 23 Settembre 2018

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Carlo Mastrodonato
Carlo Mastrodonato
5 anni fa

Mi rivedo nella descrizione del mestiere del mestcarrir! Ce n'era uno a Viale Crispi zona centrale e mi ricordo tutte le varie fasi della lavorazione!

FRANCESCO ZINFOLLINO
FRANCESCO ZINFOLLINO
5 anni fa

CERA NU MESTCARRIR ALL'ALTEZZA DELLA META DELLA VIA SANTA MARIA VETERE DOVE GLI ALLEATI PORTAVANO LE CAMIONETTE LORO ERANO ALLOGGIATI NELL'EDIFICIO SCALASTICO IMBRIANI E QUANDO PASSAVANO PER PASCHEGGISRE LA JEEP PURE NOI BAMBINI CHIEDAVAMO LA CIOCCOLATA PERO' LORO VOLEVANO LE NOSTRE SORELLE.