Cultura

La vest d la Madonn

Vincenzo D'Avanzo
Tutto si riciclava a quell'epoca. Persino i bambini si accontentavano di bambole di pezza se femmine o monopattini di legno se maschi
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Mentre il padre era in guerra, Mimina si era fidanzata con Savino, un ragazzo prestante che abitava sulla stessa strada a cento metri di distanza. Il promesso sposo spingeva per il matrimonio, ma la fidanzata da un anno non riceveva notizie del padre e aveva chiesto a Savino di pazientare perché era fiduciosa che il padre sarebbe tornato. Infatti, proprio l’assenza di notizie alimentava la speranza. Tutti in famiglia volevano accogliere l’uomo con una grande festa, appunto il matrimonio di Mimina. Grande festa si fa per dire. Già il corredo c’era anche se in gran parte riciclato: tutto quello che i genitori non avevano usato e qualcos’altro che i risparmi avevano potuto consentire. Anche le camicie nere diedero il loro contributo: appena caduto il fascismo nessuno era più fascista e molte di quelle camicie furono adattate a biancheria intima. Tutto si riciclava a quell’epoca. Persino i bambini si accontentavano di bambole di pezza se femmine o monopattini di legno se maschi. É vero, mancava l’abito da sposa. Mimina ci teneva all’abito bianco che per lei non era solo tradizione, ma il simbolo di una verginità che aveva difeso con i denti di fronte alle premurose pressioni del fidanzato. Oltretutto sarebbe stato difficile perderla perché la mamma faceva da ringhioso cane da guardia, anche per la paura di essere redarguita dal marito in caso di incidente. Questa resistenza, peraltro, aveva fatto sorgere qualche sospetto nella suocera, che, tuttavia, fece buon viso a cattivo gioco. Sia Savino che sua madre ci tenevano a questa ragazza che era bella e volenterosa. La mamma di Mimina invece era preoccupata per l’abito da sposa: non sapeva come fare avendo già utilizzato il suo per fare le camicine ai tre figli. Mimina, come il resto della famiglia, frequentava la parrocchia intrattenendo con il parroco un rapporto familiare. Una domenica dopo la messa nel salutarlo manifestò il suo problema. Il parroco l’ascoltò con attenzione e alla fine disse: vedo io tra le diverse famiglie che frequentano la chiesa se c’è qualcuna che si trova l’abito da sposa. Tutto male deve andare prendiamo l’abito bianco della Madonna. Mimina non capì se fosse una battuta o una proposta. In effetti a quei tempi molte statue che si portavano in processione erano: sotto il vestito niente. C’era un telaio di fil di ferro o un manichino di legno sul quale si montavano la testa e le mani (di cartapesta spesso), quindi il vestito, a volte ricamato, faceva il resto. Anzi la stessa testa e le stesse mani, cambiando il vestito e la parrucca, potevano diventare santa Caterina, santa Anastasia ecc. Lo stesso capitava per i santi maschi. La fantasia dei poveri ha dell’incredibile e la chiamano “arte di arrangiarsi”.

Mentre passavano i giorni Mimina si innamorava sempre di più dell’idea di indossare l’abito bianco della Madonna, della quale era sempre stata molto devota. Cominciò allora a pregarLa perché le facesse la grazia di far fallire la ricerca dell’abito usato. Era consapevole che era bella quasi quanto quel volto di Madonna che portavano in processione. La Madonna esaudisce sempre le preghiere dei suoi figli se fatte con fede, ma le interpreta a modo Suo.

Ecco che si sparge la notizia (siamo verso la fine del 1945) che un gruppo di soldati italiani dispersi era arrivato a Barletta. Nessuno sapeva ancora chi fossero e da dove provenissero. Ma il cuore di Mimina le suggerì che tra quelli poteva esserci il padre. Pregò il fratello di andare saup a Mrtoin ad aspettare la comitiva e verificare se per caso tra di essi ci fosse veramente lui. Il fratello scappò e fu il primo a riconoscere il padre tra il gruppo di militari che a piedi stavano raggiungendo Andria. Baci, abbracci. Ripresero insieme la via per Andria ma il ragazzo fremeva dalla voglia di portare la notizia in famiglia visto che il padre camminava molto lentamente. Allora chiese di consentirgli di andare avanti e siccome il padre aveva a tracolla una specie di tascapane gonfio, per alleggerirlo, se lo fece dare perché lo avrebbe portato lui. Quando lo ebbe in mano si accorse che era leggerissimo. Non era il momento, però, di capire cosa ci fosse dentro: in un battibaleno era a casa con la bella notizia. Depositò in un angolo il tascapane al quale nessuno badò più in quanto tutti si misero a fare pulizia, a cucinare ecc. Anche qualche vicina di casa si offrì a dare una mano. Quanto era bello quando tutta la strada era una famiglia: si parlava, si litigava, ci si rappacificava, si prestavano le cose: Trsì egghia fè u siuc, tinn na cpodd ca poue t la daich? Cumà Ninè t truv nu pimmn d faroin chegghia froisc u pesc?

Finalmente il padre di Mimina arrivò a casa. Feste, abbracci, racconti: insomma nu casein in quella casa, fino a quando qualcuno non inciampò sul tascapane. Tutti si accorsero allora della sua esistenza e a tutti venne la curiosità di sapere cosa ci fosse dentro. La sua leggerezza lasciava però perplessi. Quindi si decise di aprirlo. Ed ecco uscire una larga pezza di stoffa bianca. I chess ciobb ià, esclamarono in molti. E qui il racconto si fa drammatico: di ritorno dal fronte Lanard (il padre di Mimina) con gli altri fuggiaschi aveva attraversato a piedi quasi tutta l’Italia nascondendosi di giorno e camminando di notte. Una sera si imbatterono in un battaglione di tedeschi in ritirata. Temettero il peggio, quando degli aerei che in quel momento non identificarono sorvolarono le loro teste lanciando dei paracadutisti. I Tedeschi si misero a sparare contro di questi e perdettero di vista gli italiani che ovviamente si nascosero. Finito il parapiglia gli italiani si accorsero che dei paracadutisti erano morti ancor prima di atterrare, uccisi dalla contraerea tedesca. Qualcuno addirittura aveva il paracadute impigliato tra i rami degli alberi per cui erano stati facile bersaglio dei tedeschi. Sembravano stranieri anche se nessuno di loro sapeva da dove provenissero. Comunque non erano tedeschi; solo dopo seppero che erano americani. Qualcuno degli italiani pianse sul corpo di costoro che avevano loro salvato la vita. Lanard e qualche altro soldato decisero allora di recuperare il paracadute e portarselo via per ricordo: lo avrebbero conservato come una reliquia. Ed eccolo qui il paracadute nel tascapane vuoto: m raccumann na u suit strazzann, disse emozionato. A toccarlo la vicina di casa che faceva la sarta esclamò: ma chess ià sait (seta). Tutti a toccare il paracadute fino a quando arriva il turno della mamma a poggiare i polpastrelli sulla seta, dopo averla accarezzata la baciò come una reliquia: le aveva restituito il marito. Poi esclamò rivolta alla figlia: Mimì, l’amma fè da doue la vest d la zoit? “Sé”, esclamarono tutti in coro. Il marito oppose una debole resistenza, ma poi pensò che era anche una maniera per onorare il morto. Chiese soltanto che ci fosse un po’ di nero a guarnire l’abito. La vicina sarta si offrì di realizzare l’abito, le amiche cominciarono a fare il disegno e via. Un piccolissimo nastrino nero fu inserito sotto la cintura bianca che ornava il vestito. I poveri trovano sempre il modo per dire grazie.

La domenica successiva Mimina andò in chiesa con il fidanzato e il padre. Finita la Messa si fermarono a parlare con il parroco chiedendo di fissare la data per il matrimonio. Il parroco avvisò la ragazza che la ricerca dell’abito da sposa non aveva dato risultati e che al limite si poteva veramente ripiegare sul vestito della Vergine, magari con un velo per deviare l’attenzione dei fedeli. Mimina, felice come una pasqua, disse di non preoccuparsi dell’abito: la Madonn m l’à mannoit da ngill e raccontò del paracadute. Quel sant’uomo del prete li fece inginocchiare tutti davanti a un quadro della Madonna e fece recitare due Ave Maria: una per ringraziarla per il ritorno del padre e una per l’abito da sposa. Vist ca n’acchioim dcioim piur nu recchiamatern (requiem), disse Lanard. Chi è morto? Chiese il prete. So fatt moie, rispose secco il padre.

Ora bisognava organizzare il pranzo di nozze, soprattutto quello del primo giorno alla casa di Mimina. Il secondo giorno alla casa del fidanzato era meno importante perché per pochi intimi. Ci doveva essere anche il terzo giorno ma i locali di ricevimento non erano ancora agibili e comunque mancavano i soldi e anche la voglia di ballare: non dimentichiamo che in molte case mancava qualcuno all’appello.

Il problema era fare la spesa: per il popolino c’era la tessera di povertà istituita dalla Buonanima per sfamare i poveri e aumentare il consenso, impegnato com’era a fare la guerra con tutto il mondo. Con essa, però, si poteva accedere solo ad alcuni cibi essenziali, che spesso erano di scarsa qualità, anche se rigorosamente italiani. Allo zio di Mimina venne l’idea di rivolgersi al mercato nero per reperire qualcosa di più gradevole. Questo soprattutto per lo zucchero che serviva per preparare i dolci. Si divisero allora i compiti tra le due famiglie e i pochi invitati per reperire un po’ di formaggio e di salame. Per la carne si rivolsero a una stalla abbasc a u Calvarie. La zia fece i taralli scaldati, una bizzoca vicina di casa disse: datm r zccr i la faroin ca v fazz l bcchnutt. E così fecero. Per la farina si ricorse a una specie di baratto con un’altra vicina di casa che diede la farina che non le serviva chiedendo in cambio qualche bcchnott. Insomma misero insieme un bel pranzetto con la collaborazione di tutti.

Per la colazione degli sposi il giorno dopo il matrimonio la suocera si organizzò lei: fece una bella crostata, ci aggiunse due uova da sbattere con una goccia di rosolio al momento opportuno per rinforzare la colazione, aspettò che passasse il vaccaro per un po’ di latte e u caffttirr per due tazze di caffè, passò a prendere la mamma di Mimina perché fosse testimone ed entrambe corsero alla casa degli sposini. Il giorno prima la mamma dello sposo aveva detto a Mimina: nan t si preoccupann d fè u litt. Tiue sarè com a da stè stangoit, m r bait ioie quann veng (lo faccio io quando vengo). Poggiato il tutto su un tavolino, mentre i due sposini “tubando” facevano la colazione, le due mamme corsero in camera da letto per l’attesa verifica. Visto che tutto era andato per il verso giusto, tolsero le lenzuola, fecero nu fangott, che la madre di Mimina portò poi a casa per il bucato.

Per il viaggio di nozze ebbero l’invito da parte degli zii per una gita alla masseria dove lavoravano come custodi, avendo ottenuto per questo il permesso dei padroni. D’accordo fu rimandato alla domenica successiva.

La domenica dopo, prima della gita, le due, anzi tre, famiglie si recarono in chiesa tutti insieme. Alla fine della messa andarono in sagrestia e consegnarono al parroco l’abito da sposa: né, hamm pnzoit ca alla Madonn put abbsgnè angour. E servì veramente perché alla festa successiva la Madonna indossò proprio quell’abito e fu una festa per il quartiere. L vè propr bunn alla Madonn, disse il padre di Mimina quando passò la processione davanti alla casa, sarè cum avva ess condend moue u suldoit ca mroie.

Il padre continuerà a raccontare sempre la storia di quell’americano che si sacrificò per salvare la vita a lui che nemmeno conosceva mentre Mimina insegnava ai figli di pregare sempre per i morti in guerra. Il parroco ogni anno, prima della processione, ricordava la storia di quell’abito da sposa.

Ps. A-Lo spunto per questo racconto in una testimonianza del preside Franco Suriano durante una conversazione con il narratore in occasione del 40° anniversario della morte del sen. Jannuzzi. Fu lui a parlarmi degli abiti da sposa fatti con la stoffa dei paracadute e delle camicie nere trasformate in biancheria intima.

B- Le teste e le mani delle foto sono nelle bacheche della cattedrale. Le più grandi sono in legno, attribuibili al maestro Brudaglio.

domenica 14 Ottobre 2018

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Nanny
Nanny
5 anni fa

Racconto bellissimo, unica pecca…che alcuni dialoghi non sono riuscita a capire perché erano troppo stretti ???? e per me è un peccato..Sul più bello della storia. Mi avete emozionato.