Cultura

Va’, dillo a Gesù

Vincenzo D'Avanzo
​Si parla sempre delle guerre dei "grandi". Molto spesso invece a dare il termometro della situazione vera sono le guerre dei cittadini semplici
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Si parla sempre delle guerre dei “grandi”. Molto spesso invece a dare il termometro della situazione vera sono le guerre dei cittadini semplici.

Siamo nel 1943. Nella valle di santa Margherita ci sono una serie di grotte scavate nel tufo dalle acque alluvionali prima e poi dalla mano dell’uomo che le ha rese sempre più accoglienti, fino a quando arrivarono i monaci che le affrescarono. La più bella, la più grande, la più “ricca” è quella che custodisce l’affresco della nostra Patrona. É l’unica che ha una storia da raccontare, fatta di divinità e di umanità, di spiritualità e di corporeità, di speranze e di guarigioni. Le altre sono state prima dimenticate e, quando riscoperte, hanno riempito la memoria della gente di avvenimenti leggendari e di misteri. I più ricorrenti hanno per protagonisti briganti, furfanti, contrabbandieri che in quelle grotte sepolte dalla fitta vegetazione trovavano riparo dagli occhi degli uomini.

Anche durante la guerra alcune grotte furono abitate e tra esse una che era diventata fissa dimora notturna di Ciacind, che di giorno vendeva merce al mercato nero e qui si nascondeva in un pertugio che solo la moglie conosceva, la quale, poveretta, qui arrivava all’imbrunire ogni tanto per portare sollievo al marito. Con la guerra la vita di Ciacind era diventata un inferno, braccato continuamente dalle guardie benevole e dai tedeschi arrabbiati.

Dall’altro lato di Andria, in contrada Macchie di rose, c’era un villino di nessuna pretesa ma prezioso per il proprietario che qui si rifugiava soprattutto quando doveva comporre brani musicali di eccezionale valore. A queste composizioni, che nel tempo diventeranno inni popolari, offrivano la loro intelligenza e passione artistica lo stesso podestà Pasquale Cafaro, alcuni sacerdoti letterati e quello che sarà poi il vicario di mons. Di Donna, don Antonio De Fidio, forse il più grande compositore andriese.

Nel villino don Antonio si recava, accudito dalla sorella, per comporre le sue musiche, la maggior parte delle quali saranno poi eseguite e cantate nelle molteplici circostanze, a cominciare dall’inno alla sacra Spina in occasione del celeberrimo miracolo del 1932. Sin da giovane si dedicò alla cura della schola cantorumche accompagnava i riti solenni nella diocesi. Durante la guerra, però, i tedeschi si insospettirono di questo via vai e cominciarono a perquisire il villino un giorno sì e l’altro pure. Chiaramente i due cominciarono ad avere paura perché non è che i tedeschi avessero una particolare predisposizione a ragionare. L’unica cosa alla quale erano abituati era urlare e gesticolare con il fucile in mano, il che creava terrore puro. Stanchi di queste vessazioni e anche della incertezza perché nessuno diceva cosa o chi cercassero, un giorno la sorella di don Antonio disse al fratello, dubbioso se rientrare in città per la Messa: “va, dillo a Gesù”. Il fratello la guardò e le disse: “ma ti pare che non l’abbia detto?” E la sorella, che aveva sentito tante volte il fratello ripetere una frase di sant’Agostino: “cantare è pregare due volte”, riprese: “allora diglielo cantando”. In quell’anno, 1943, nasceva lo splendido inno: “va, dillo a Gesù”, “Se il mesto tuo cuore in mezzo alla prova – fra tanto dolore la pace non trova – se priva d’incanto è la vita quaggiù – non piangere tanto: va, dillo a Gesù”.

Intanto Ciacind continuava la sua doppia vita: di giorno non aveva problemi in quanto protetto in qualche modo da alcuni componenti della milizia fascista: infatti qualcuno di essi sequestrava i beni (per ragioni varie) e Ciacind provvedeva a rivenderli. Il serpente è sempre attivo visto il successo avuto con Eva. La mancanza di beni di prima necessità induceva molti ad arrangiarsi. Di notte però con i tedeschi non si poteva scherzare e alla moglie confidava che aveva sempre più paura perché sentiva i cani dei tedeschi sempre più vicino. Una sera le sfuggì: “d crrò t piggh a paghiur, tinn la Madonn vcioin” (di cosa ti preoccupi, tieni la Madonna vicino), suggerendogli di dire una preghiera. Al che Ciacind rispose: “i cià s’arrcord r prghir”. E la moglie confessò che anche lei non aveva dimestichezza con la preghiera. Poi ebbe un lampo di genio: “e se trovo qualcuno che dice le preghiere al posto mio?” Era usanza allora che in occasione dei funerali, dietro modica ricompensa, si invitassero pie donne a pregare attorno al catafalco. Ancora oggi a Bari alcune signore bene mandano pie donne a pregare sulla tomba dei propri cari. Per le pie donne è una manna in assenza del reddito di cittadinanza.

La moglie di Ciacind un giorno andò anzitempo dal marito e prima di scendere entrò nella basilica alla ricerca di qualche donna a cui commissionare una preghiera per il marito. Non avendo trovato nessuno si avvicinò a un monaco che stava pregando con un libro nero in mano (il breviario) e raccontò di questo bisogno di una preghiera. Il monaco cercò di spiegarle che era meglio che pregasse lei direttamente. Ma la signora gli disse: “nan sacc crrò s doic”. Disarmato il monaco, che faceva fatica a capire il dialetto, disse: “va bene, lo dico io un rosario alla Madonna per tuo marito”. Contenta promise che finita la guerra si sarebbe disobbligata. Il monaco sorrise mentre alzava la mano per benedirla. Avviatasi per uscire la signora ci ripensò: “z mò, la prghirr dill a na Madonna boun”. Il monaco non comprese cosa volesse dire e chiese spiegazioni e la signora replicò: “so sndiut ca staun tanda Madonn: chedd d l’altmoir, du Carmn, la madonn d r latt, chedd du scitt…”. Concluse chiedendo quale fosse quella più generosa. Il povero monaco agostiniano fece una espressione di desolazione anche perché alcuni di quei titoli nemmeno li conosceva. Poi le spiegò che si trovava proprio nella chiesa della Madonna giusta per lei e spiegò: “questa è proprio la Madonna degli andriesi, di tutti gli andriesi buoni e cattivi”. E indicò la parola protettrice scritta sulla pala dell’altare. Però, aggiunse, “la Madonna è una, non ce ne sono tante e soprattutto a Lei piace essere chiamata mamma”. E poi le spiegò la preghiera più semplice: “quando stai male che dici?” Chiese. “Hei mamm”, rispose lei. Ecco quando hai bisogno della mamma del cielo dici: “hei Madonn! Vedrai che ti sente”, concluse il santo monaco.

Dopo pochi giorni Ciacind non sentì più il latrato dei cani tedeschi, don Antonio e la sorella non ebbero più visite. I tedeschi, incalzati dagli alleati, lasciarono la città incendiando tutti i magazzini. Andria cominciò a leccarsi le ferite e il santo vescovo Di Donna, interpretando il pensiero del popolo, dedicò tutto l’anno 1947 alla Madonna. Ovviamente gli andriesi ripresero i pellegrinaggi alla loro Madonna, quella che non ottiene i miracoli dal Figlio perché questo sarebbe il suo compito ma perché “i suoi protetti” li chiedono con fede. Ogni giorno e soprattutto il sabato la basilica e il piazzale erano stracolmi di persone oranti. Impressionati da questa continua fiumana umana Don Lorenzo D’Angelo e don Antonio De Fidio fotografarono questo particolare rapporto componendo il canto forse più popolare degli andriesi (d’un tempo): O REGINA VESTITA DI SOLE, il cui ritornello risentiva ancora del dramma appena superato: “a te fiori su fiori- a te luci su luci… Deh! Il tuo fulgido volto- china ai nostri dolori- e sul mondo sconvolto- prega, o dolce Maria”.

Il canto descriveva lo stato d’animo del popolo nella processione notturna del 1946, giorno in cui fu eseguita per la prima volta: i fiori, le luci, persino i fuochi lungo il percorso: “Te presente al destarsi dei mondi- Dio prescelse per madre a suo figlio- che morendo a te figli ci diè”. Quando l’inno fu eseguito era l’alba non furono poche le persone viste asciugarsi gli occhi. Anche Giacinto e la moglie erano presenti quella mattina, anche essi furono coinvolti nella emozione e nell’entusiasmo. Fu a quel punto che Giacinto chiese alla moglie di imparare insieme na prghirr chiù aggarboit, stanco di dire solo “Hei, Madonn”.

Don Lorenzo e don Antonio diventarono stretti collaboratori del vescovo Di Donna, il quale, apprezzando la loro capacità di capire il popolo, li nominò anche confessori privilegiati.

Entrambi erano maturi e quindi la gente si fidava, dietro il loro confessionale c’era sempre la coda. Particolarmente accorsato era quello di De Fidio, specie dalle signore bene. Egli attento passava molto tempo ad ascoltare le pene della gente. Ma alla sorella non sfuggì un dettaglio: alcune signore indugiavano parecchio in ginocchio dietro la grata del confessionale. “Cos’ hanno da raccontare?”, chiese un giorno al fratello, il quale, imbarazzato, si trincerò dietro il segreto confessionale. A una donna non dire mai fatti i fatti tuoi, è come se ti confessassi colpevole. La donna era sicura della virtù del fratello sulla quale aveva vigilato da sempre, ma il “serpente”, quello di Eva, è viscido. Dice la leggenda che lei era spesso di guardia davanti al confessionale del fratello: appena si accorgeva che una donna indugiava più del tempo secondo lei necessario per fare l’elenco e ascoltare qualche buona parola, si avvicinava alla malcapitata invitandola a chiudere perché c’era molta gente oppure che lei aveva urgenza. La rivista diocesana alla morte di don Antonio esaltò “il sacerdote secondo il cuore di Dio, direttore di anime devote”. Nel momento in cui lo scandalo intacca la credibilità della stessa Chiesa la sorella di De Fidio indica la strada: i fedeli devono vigilare e non provocare e comunque pregare. I preti eroici sono la grande maggioranza anche se non fanno notizia.

Giacinto continuò a vendere, ma ora la merce era legale ed egli passava per le vie con un carretto che spingeva a mano, vendendo la verdura che comprava dagli ortolani. Quando le donne facevano notare l’immagine della Madonna dei Miracoli attaccata al carretto egli subito rispondeva: “è na mamma boun!” Il 10 marzo e la notte di fine agosto di ogni anno con la moglie non mancava mai alla processione.

Mons. De Fidio morì nel 1955: aveva 68 anni. Chi lo conosceva bene ricorda il suo sguardo triste che non era depressione ma serietà e attaccamento al suo popolo. Poteva diventare famoso ma lui pensava solo a rendere eccelso il servizio religioso. Per quarant’anni aveva accompagnato con la sua musica tutte le vicende tristi e liete della città. Il regalo forse più bello fatto agli andriesi resta proprio l’inno alla Madonna del Miracoli: Quale Incanto Mirarti Maria, nel quale interpreta il rapporto straordinario al limite della fisicità della città con la sua Patrona: dice il ritornello: “Vergin santa gloriosa Maria,- sol per te si compiace il Signore -largir grazie, portenti d’amore: ricorriamo fidenti al Tuo pie’”.

Dove significativo è quel “piè” al singolare: è il piede destro della Madonna della statua argentea (rubata) proteso in avanti diventato liscio perché tutti ci tenevano ad accarezzarlo.

Deh! Proteggi quest’Andria fedele

che ti elesse a sua Madre divina:

Nota: ringrazio l’ottimo maestro Michele Carretta per la collaborazione prestata nel delineare la figura di mons. De Fidio.

domenica 10 Marzo 2019

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