Cultura

U jazz di Lama Genzana: mbà Andonie u Prfssour

Vincenzo D'Avanzo
Un contadino conosce la Murgia palmo a palmo e offre la soluzione al problema dello spopolamento
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Antonio conosceva il tratto di murgia intorno a Castel del Monte come le tasche dei suoi pantaloni: vuoto il primo, vuote le seconde. Erano anni che, come guardiano, batteva palmo a palmo la zona e conosceva tutto di tutti coloro che nel territorio risiedevano oppure andavano a soggiornare nella bella stagione, anche se sulla Murgia d’estate si può vivere ma solo a partire dal tardo pomeriggio fino all’alba. Di giorno il caldo secco può procurare danni al corpo e a volte allo spirito. Capitò una volta a un turista tedesco: aveva deciso di fare a piedi da Andria a Castel del Monte. Solo il tempestivo intervento di Antonio, che occasionalmente si trovava lungo la sua traiettoria, riuscì a salvarlo dalla insolazione che lo colse nel tratto finale: Antonio lo adagiò sulla cisterna che si trova nei pressi della strada statale a Lama Genzana e qui lo dissetò e lo rinfrescò. Quella cisterna cadeva nella proprietà della comunità Braccianti, che con i cantieri di lavoro aveva sistemato sia la cisterna sul lato sinistro della strada sia u jazz realizzato sulla destra ma nell’interno. Negli anni Settanta il cappellano della Comunità, don Riccardo Zingaro, aveva coltivato il sogno di realizzare una scuola materna estiva. Poi si riesumò un citatissimo vincolo paesaggistico a bloccare ogni iniziativa. É nella tradizione urbanistica della nostra città: chi costruisce abusivamente è avvantaggiato rispetto a chi chiede di farlo nella legge. Si è costruito di tutto nei paraggi del Castello: poi, anziché mettere ordine dando se mai delle caratterizzazioni agli interventi edili, si è proibito tutto, salvo non vedere le nuove costruzioni abusive.

Antonio con la sua scassata bicicletta girava tutto il giorno e la notte spesso si fermava in quel piccolo rifugio (u jazz). All’inizio era ospite dei pastori e la vita trascorreva tranquilla: pane arrostito e formaggio per la cena, un bicchiere di latte al mattino e il sonno profondo a collegare i due momenti. Il profumo delle pecore e il loro tepore addolcivano il rigore notturno. D’estate invece era uno spettacolo ammirare le stelle nella loro evoluzione nella calotta celeste. E Antonio portava anche i figli nel periodo intorno al 10 di agosto per passare la notte a sognare tra le stelle ed esprimere i desideri quando le vedevano “cadere”. Beata ingenuità.

Poi i pastori andarono via, la comunità braccianti non ebbe i mezzi per continuare i lavori e tutto rimase sospeso. Antonio continuò a usare u jazz per molto tempo e la notte immaginava sempre di trovarsi all’interno del Castello e partecipare alle feste che lì dentro una volta si svolgevano e dovevano essere sfarzose, degne di un imperatore che avrebbe lasciato un segno indelebile nella Storia. Ma Antonio non era mai stato in una reggia e pensava spesso al giorno in cui l’imperatore lo avrebbe convocato a corte per assaggiare le sue verdure, quelle che lui accoglieva con tanto amore macinando chilometri ogni giorno e che poi lasciava alla moglie perché, segnalato dalla sedia fuori la porta, aprisse il piccolo emporio della verdura per racimolare quattro soldi per comprare un po’ di carne per i figli.

Un giorno Antonio si era spinto fino all’azienda Cavone verso Spinazzola dove vide un certo movimento. Si avvicinò per vedere cosa stesse succedendo e capì che si stava parlando di ripopolamento della fauna e della flora sulle colline della murgia. Lui, che non capiva cosa fosse flora e fauna ma si intendeva di animali e di piante, si fece largo e prese la parola biascicando nel suo dialetto italianizzato: “io batto palmo palmo questo territorio e trovo sempre meno verdura perché le pecore al pascolo non le fanno crescere mangiandosele appena nate”. Uno dei personaggi presenti fu stupito dalla indicazione del verduraio e cominciò a dialogare con lui. Parlò del disboscamento avvenuto nei secoli, delle piogge che lavano il terreno, dell’incuria delle pubbliche amministrazioni ecc. Antonio però, che questi ragionamenti non li capiva, ad ogni argomento ripeteva: “manghn l crstioin”. La prima volta l’interlocutore non ci badò, la seconda fece finta di non capire, alla fine sbottò: “ma che vuol dire questa espressione dialettale?” Antonio sorrise poi spiegò nel suo linguaggio: “manca la gente, mancano le persone. Vedi”, disse indicando il monte Caccia, “io lo conosco questo territorio, è tutto abbandonato, non c’è anima viva e se non ci sono le persone che coltivano, proteggono, consumano, puliscono, educano i vacanzieri non ci sarà rimedio”. Il personaggio si rivolse ai colleghi e disse: “mi sa che il contadino ha ragione”. Poi, pensando di gratificarlo, gli chiese quanto volesse per la verdura raccolta. Antonio lo guardò accigliato e rispose: “naun, chess ià la vrdiur p l zappatiur, non voglio che la signora vostra moglie non sapendola cucinare la butti. Vedi, la mia fatica non è compensata solo dai quattro soldi che mia moglie raccoglie vendendola ma anche dalle benedizioni che mi mandano quelli che la mangiano”. E riprese il cammino solitario con il tascapane e la zappetta.

Antonio aveva scombussolato i ragionamenti di quei signori ben vestiti, che volevano salvare la Murgia dallo stato di abbandono ma la conoscevano solo attraverso le mappe, le fotografie, i libri. Ma il contadino aveva ragione: la Murgia è uno dei territori stepposi più vasti d’Italia in stato di abbandono perché disabitata. La popolazione forma una cornice esterna da Ruvo, Corato, parzialmente Andria, Minervino, Spinazzola fino a Gravina. All’interno nessun insediamento abitativo di un qualche significato e si sa che da sempre è l’uomo che valorizza il territorio. La steppa può anche essere un paesaggio caratteristico, ma se non lo si valorizza non serve a niente, non produce.

Gli scienziati (che erano poi rappresentanti della Università di Bari) presso l’azienda Cavone continuarono a discutere su come valorizzare la zona e poi andarono a mangiare a Spinazzola la lingua di bue che scambiarono per fettine, Antonio continuò a fare il suo lavoro ricco di soddisfazioni, sebbene più morali che materiali. Infatti a mezzogiorno si sedette sotto un albero a sgranocchiare la pagnotta che la moglie gli aveva preparato facendo un buco all’interno e versandovi un po’ di verdure cotte che lui stesso aveva raccolto. Fu mentre si godeva il meritato riposo sdraiato saup a la pscoir di lama genzana che un giorno si vide circondato da un gruppo di ragazzini. Era una scolaresca che in gita a Castel del Monte si era fermata a fare merenda proprio lì.

Antonio all’inizio pensò di essere disturbato ma poi quella moina gli piacque anche perché la maestra si era avvicinata e, con fare altezzoso, aveva chiesto: “signor contadino, vuole spiegare ai bambini cosa sono queste erbacce?” Antonio, un po’ seccato, rispose: “signurì u Signour stè ngill”. Si alzò e invitò i ragazzini a seguirlo dicendo: “queste non sono erbacce, sono tutte verdure utili. Se le pecore se le mangiano e non muoiono anzi le fanno mangiare anche a noi tramite il latte e la loro carne, vuol dire che pure l’uomo può mangiarle”.

E li portò in giro facendo notare le cicorielle, i finocchietti, i cardi, i senapelli e tutte le altre verdure che arricchiscono il territorio, spiegando loro che d’inverno si possono trovare i lampascioni e soprattutto i funghi cardoncelli, in primavera gli asparagi ecc.. I ragazzi seguirono le spiegazioni con molta attenzione e cominciarono a divertirsi e a chiamare Antonio quando trovavano una verdura. Fino a quando non si imbatterono in un cespuglio di ginestre: qualcuno ne spezzò un rametto per darlo alla bambina che era vicino, un’altra (ruffiana) ne fece un mazzetto per portarla alla maestra che era rimasta in disparte con i suoi pensieri fidando sulla collaborazione del contadino. Antonio rimproverò tutti i ragazzini dicendo loro che i fiori non si dovrebbero toccare perché una volta spezzati si accelera la loro morte. “Volete voi che i fiori muoiano?” “No”, dissero in coro i ragazzi. E il verduraio li condusse alla scoperta degli altri fiori: le anemone, le camomille, le campanule, i capperi, la carota selvatica ecc. Ovviamente Antonio le chiamava a modo suo. A un tratto un bambino si mise a rincorrere una lucertola e Antonio subito intervenne: “no, gli animali non si toccano perché tutti servono. U padrtern ha fatt tott r caus perfett”. E cominciò a raccontare dei tanti animali che popolano il territorio: le volpi, il ghiro, le lepri, gli scoiattoli, la gallina prataiola senza parlare del grillaio che mangiandosi i grilli protegge la natura. D’estate poi bisogna stare attenti alle vipere che sono molto pericolose per il veleno che possono iniettare. Quando si accorse che i ragazzini non toccavano più i fiori disse: “ora cogliete un fiore ciascuno e portatelo alla mamma, quando le avete fatto sentire il profumo mettetelo in mezzo al quaderno e fatelo seccare, vedrete che vi accompagnerà per tutto l’anno scolastico e il quaderno profumerà”. A questo punto si scatenò la guerra a chi faceva il fiore più bello fino a quando la maestra diede fiato al fischietto perché era tornato il pullmann.

Andati via i ragazzi Antonio si stese di nuovo sopra la pscoir e guardando il cielo pensò all’imperatore che non aveva mangiato le sue verdure, pensò alla moglie che il giorno dopo non avrebbe avuto nulla da vendere, pensò a quei signori benvestiti che non capivano la vita sulla murgia, poi pensò a se stesso, alla giornata trascorsa insieme ai ragazzi e alla fine esclamò: “ioie pozz fè u prfssour, naun chedda quagnedd ca sapoiv doic assaliut: scusa signor contadino”. Inforcò la bicicletta e si avviò verso casa prima che si facesse buio. Durante il percorso cercava una scusa per la moglie senza riuscirne a trovare una che fosse credibile. Alla fine decise di dire la verità. Così fece e quando la moglie lo rimproverò perché non aveva portato il quantitativo giusto delle verdure rispose sorridente: “però p na doie si aviut nu maroit prfssour”. Non l’avesse mai detto perché da quel giorno la moglie e i figli presero a canzonarlo: “chiamoit u prfssour alla tavl”. E i figli: “prfssò vinn a mangè, u ste sazie?” Questo nomignolo gli rimase attaccato per tutto il resto della vita: mbà Andonie u prfssour.

Nota: il vostro narratore vanta il merito di essere stato (con Ventricelli di Gravina) tra gli ideatori del parco della Murgia che nacque formalmente in un convegno presso l’Istituto Agrario di Andria conclusosi con un concerto nel cortile di Castel del Monte. Si pensava allora (inizi anni Novanta) ad un parco vivo, non alla semplice tutela di un paesaggio caratteristico ma destinato al silenzio. Il ripopolamento anche dal punto di vista umano (oltre che flora e fauna) doveva portare a una valorizzazione del territorio con possibili ricadute anche di carattere economico. Bisognava solo avere un progetto e misurare gli interventi necessari tutelando la tradizione e il paesaggio ma anche favorendo la vita. Se non si guida si subisce poi l’abuso. E la storia racconta gli effetti deleteri che l’abusivismo ha prodotto. Le città che fanno corona alla murgia barese (che sono poi il confine dei 68 mila ettari del parco) possono consorziarsi e studiare tutti quegli interventi possibili e vigilare con rigore sulla loro attuazione. La bellissima iniziativa della diocesi di Andria con la trasformazione della masseria San Vittore in una “casa senza sbarre” rischia la decadenza se non si è capaci nemmeno di sistemare le strade. Ora il Parco ha una dirigenza sensibile a queste problematiche ma forse non abbastanza fondi. Di qui l’esigenza di coinvolgere anche i privati. Il Castello di Federico senza la Murgia non coglie l’obiettivo. Et de hoc satis, in questa sede.

domenica 12 Maggio 2019

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Antonio Anelli
Antonio Anelli
4 anni fa

Una storia interessante, tra il serio ed il faceto, ma “vera” come lo sono le storie di vita vissuta. Solo una considerazione personalissima: non mi piace molto la citazione: “Poi si riesumò un citatissimo vincolo paesaggistico a bloccare ogni iniziativa.”. Solo una considerazione per tutte: che sarebbe stato della collina di Castel del Monte e di Castel del Monte stesso senza quel vincolo?