Cultura

Nel cinquantenario della morte del senatore Onofrio Jannuzzi

Vincenzo D'Avanzo
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I funerali dell'on. Onofrio Jannuzzi
Il Senatore non poteva mancare a rappresentare il "suo" popolo, che doveva sapere che lui c'era
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“Concepire la vita come una serie di doveri da rispettare, di obblighi da assolvere, davanti agli altri, a se stessi e, beninteso, a quel Dio in cui aveva la fortuna di credere fermamente e senza esitazioni”.

È la fotografia che l’ambasciatore Giovanni Jannuzzi traccia del padre, il senatore Onofrio. E la dimostrazione è tutta nell’ultima giornata della sua vita, quel 19 maggio del 1969 che segnò una svolta storica per la nostra città. Anche la rappresentanza per il senatore era un dovere. Il giorno prima Jannuzzi poteva anche mandare un messaggio per giustificare la sua assenza dalla cerimonia di consacrazione del vescovo Lanave. Non se ne sarebbe accorto nessuno. Ma nella mente di Jannuzzi questo era inconcepibile. Il senatore non poteva mancare a rappresentare il “suo” popolo, che doveva sapere che lui c’era. E quando Moro in san Pietro si accorse del suo malore e lo invitò a tornare a casa, egli oppose un netto rifiuto. E anche il giorno dopo, il fatidico 19 maggio. Non so se Colasanto e don Zingaro abbiano provato a togliere il disturbo, di certo c’è che Jannuzzi non si sottrasse all’impegno assunto di accompagnare i due leaders andriesi per i vari ministeri a sbrigare pratiche nell’interesse della sua città.

C’è una delle poche immagini che il vostro narratore ha visto con i propri occhi. L’ultima volta che Jannuzzi divenne sindaco di Andria (per pochi mesi, 1966) alla processione del venerdi santo egli incedeva solitario a due metri di distanza dal resto del consiglio comunale. Al narratore sembrò una scelta di vanità fino a quando il geom. Michele Bafunno non gli diede una spiegazione plausibile. Il suo messaggio era chiaro: io rappresento voi ed eccomi, ci sono, punto di riferimento per tutti. Per questo era “ricercato” dal suo popolo, quello stesso che il giorno dei funerali assiepava i marciapiedi con le lacrime agli occhi, era ricercato dai consiglieri comunali di maggioranza e di opposizione, di Andria e delle altre città del suo collegio, dai parlamentari vari che a lui chiedevano consigli, da ministri che si avvalevano della sua competenza in materia di politiche meridionali e internazionali. E lui a tutti si donava.

Una volta l’amministrazione di Corato era in difficoltà per l’approvazione del bilancio e chiesero aiuto a Jannuzzi. Egli si prestò con tutto il suo prestigio facendo approvare il bilancio. Quando i democristiani di Corato gli fecero rilevare che l’amministrazione era di sinistra, il senatore serafico rispose che non gli interessava il colore dell’amministrazione ma il futuro dei coratini. D’altra parte anche ad Andria nel 1952 egli si oppose ai democristiani che volevano mandare a casa l’amministrazione di sinistra a causa di uno scandalo e preferì dare una mano agli avversari prestando anche assessori democristiani per evitare il commissariamento del comune. È questo atteggiamento che fa di un politico un leader (ogni riferimento a recenti avvenimenti è occasionale). Gli uomini prima di tutto. A ragione l’avv. Antonio Giorgino potè dire un giorno che ognuno di noi deve qualcosa al senatore Jannuzzi. Anche quelli che non lo hanno conosciuto. La storia stava prendendo una china pericolosa a seguito dell’eccidio delle sorelle Porro. Se non si verificò in quella circostanza una vera e propria guerra civile lo si deve anche alla vasta preparazione culturale e giuridica dell’avvocato Jannuzzi, che anche nella sua professione sapeva anteporre l’interesse della verità rispetto a quello di parte. Essere riuscito a far prevalere la responsabilità dei singoli e non mettere sotto accusa i partiti servì a calmare gli animi.

Il vostro narratore ha solo sfiorato l’esperienza umana del senatore ma ha vissuto nel partito gli anni successivi alla sua scomparsa e può testimoniare quante volte i dirigenti della DC, di fronte alle difficoltà, lamentassero l’assenza di un uomo che con una sola parola, un gesto, una telefonata riusciva a risolvere problematiche complesse. Don Riccardo Zingaro ha potuto testimoniare la contentezza di don Onofrio quando risolveva un problema e la delusione quando invece la pratica non andava in porto.

Il vostro narratore ha conosciuto meglio la sorella Rachele per via di una zia che condivideva con la nobildonna un grande moto di carità verso i più deboli. Donna Rachele era vigile custode del fratello quando questi era presso il villino che avevano in via Corato, denominato la “cappella”. Qui il senatore riceveva decine di questuanti al giorno (quando era presente) dagli interessi più disparati. Poteva capitare che il senatore si appisolasse alla scrivania: allora la sorella attenta cercava di dissuadere l’avventore. Jannuzzi, però, che aveva il sonno leggero, sentiva il chiacchiericcio e invitava la sorella a farlo passare.

Capitava altresì che fosse il fratello a pregare la sorella di lasciarlo in pace per qualche tempo o per riposare o per studiare. In presenza tuttavia di qualche caso urgente era donna Rachele, questa volta, a violare le disposizioni del fratello e si affacciava alla porta chiedendo se poteva fare entrare un “amico” con problemi urgenti. Onofrio puntualmente si arrendeva. Erano complementari entrambi, la generosità era nel loro dna.

Capitò una volta che un cittadino andriese si rivolgesse al senatore raccontando che era stato licenziato dal padrone (ricco proprietario terriero) e non riusciva a trovare lavoro. Il senatore si prese qualche giorno di tempo per contattare altri “padroni”. “Vedrai”, disse la sorella accompagnandolo alla porta, “a lui non possono dire di no”. Il tentativo invece si rivelò inutile. Il senatore era mortificato per dover notificare una sconfitta. Pensa e ripensa alla fine trova la soluzione: prese qualche ettaro dei suoi terreni e li cedette al contadino che così divenne coltivatore diretto. Era l’avvio della riforma agraria che egli provò ad espandere il più possibile.

“Dire che la mia festa è festa per gli andriesi è iperbolico. È vero, invece, che in ogni evento, lieto o triste della mia vita mi sento particolarmente vicino alla mia terra, alla quale non mi sembra di dare abbastanza in cambio di quel che ricevo”. Di che festa parlava nella lettera inviata alla sorella? Le nozze d’argento con la città. Si, perché considerava quello con la città un vincolo matrimoniale nato nel 1944 con la prima nomina a commissario. Per quel 1969 egli stava organizzando una grande festa. Lo disse egli stesso a Fedele D’Atteo, Antonio Nicolamarino, Vincenzo Cannone e a un giovanissimo Vincenzo D’Avanzo. Era il 1° aprile e per me fu la prima e unica volta al suo cospetto: “fatelo lavorare”, disse a Cannone mentre io lo salutavo.

La festa ci fu, ma non quella che voleva lui. Avvenne il 22 gennaio. Andria si spopolò, tutti i cittadini erano tra piazza Municipio, piazza Catuma e la cattedrale e poi fino a piazza sorelle Agazzi. Un corteo imponente guidato da Aldo Moro ammutolì l’intera città, che era rimasta “percossa e attonita” dal momento del “nunzio” doloroso. Le dolenti note delle marce funebri della banda dell’esercito rendevano ancora più struggente l’atmosfera spinta alla commozione quando in cattedrale risuonarono le parole di mons. Michele Doria: “Il combattente di tutte le battaglie della fede, della giustizia, della cultura, della civiltà e del progresso è caduto sul campo delle sue quotidiane lotte… per questo è diventato la guida sicura del suo popolo che a lui si è affidato sicuro e che trascinava verso mete di benessere e di prosperità. É da quella sera che lo cerchiamo, che lo attendiamo, come tante volte, agli abituali appuntamenti dell’amicizia e del dovere”.

Nota: La celebrazione pubblica del cinquantenario si farà a settembre quando sarà possibile avere tra noi i due figli (Giovanni e Mariella), la nipote Renata e altri parenti.

domenica 19 Maggio 2019

(modifica il 2 Agosto 2022, 13:48)

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