Cultura

Lo sposalizio, la busta e il cibo da portare a casa

Vincenzo D'Avanzo
Il matrimonio è il trionfo dell'amore, che si coltivasse nel portafogli è una delle innovazioni della società moderna
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Antonio quella sera era disperato. Aveva fatto il filo per diversi mesi a Carmela da quando l’aveva incontrata per la prima volta alla festa della mietitura presso la masseria dove lavoravano il padre e lui e alcuni parenti della ragazza. Finalmente Carmela, che lo vedeva una volta la settimana quando Antonio andava a Corato con la bici, aveva ottenuto il consenso dei genitori per il fidanzamento ufficiale. In vista di questo importante appuntamento, che prevedeva anche il ballo animato da una piccola orchestra, Antonio aveva chiesto agli amici di aiutarlo a imparare qualche essenziale passo per non sfigurare. A quei tempi infatti non c’erano le discoteche dove bastavano scoordinati movimenti e il problema era risolto. Nelle feste importanti animate da orchestrine occasionali, bisognava conoscere balli più impegnativi: dal tango alla mazurca, dal valzer sino alla quadriglia, che essendo balli in gruppo e di gruppo non potevi scoordinarti dagli altri. Anche perché le feste in casa si caratterizzavano per ambienti piccoli per cui un errore non sfuggiva alla critica impietosa. Per questa ragione era stato tutta la sera a provare e riprovare. Ma, forse anche per la stanchezza della giornata di lavoro, i suoi movimenti suscitavano ilarità, cosa peggiore del non saper ballare. Disperato quella sera Antonio, rientrato in casa, si buttò sul letto, se così si poteva chiamare “nu saccaun” riempito di paglia e foglie secche poggiato su due assi di legno sostenuti da due cavalletti di ferro (u trstìdd). La rabbia e la durezza del letto impedivano di addormentarsi. Di tutto ciò si accorse il fratello maggiore che dormiva nel lettone (saccaun) a fianco. Siamo negli anni cinquanta e qualche cosa comincia a muoversi per il divertimento dei giovani dopo gli anni bui della guerra. Chi aveva un locale di una qualche dimensione (magari una vecchia stalla) organizzava una specie di scuola di ballo, dove qualche ragazzo più provetto faceva da insegnante e i meno esperti cercavano di imparare il più velocemente possibile perché ogni giro di ballo costava. Poiché erano tutti maschi chi faceva la parte della donna doveva portare un fazzoletto al braccio come segnale di riconoscimento. Le ragazze dovevano arrangiarsi da sole facendo le prove in casa con l’aiuto della madre o di qualche sorella. Il fratello di Antonio si offrì di accompagnarlo in una di queste sale. In effetti il consiglio si rivelò utile: Antonio imparò il valzer a meraviglia e ordinava sempre quello ai musicanti. Il futuro della coppia dipendeva anche dalla abilità nel ballo: un ragazzo brillante nel ballo era oggetto di invidia da parte delle amiche della ragazza prescelta e la gelosia sappiamo tutti, se non esagerata, è il cemento dell’amore.

Bypassato brillantemente il primo ostacolo i due fidanzati cominciarono a prepararsi per il matrimonio e qui sorse una difficoltà non da poco. Le usanze a Corato erano diverse da quelle andriesi. Con il diffondersi del benessere tendeva a scomparire la tradizione della festa dello “sposalizio” suddivisa in tre giornate (il primo giorno i parenti alla casa della sposa, il secondo libero con il sistema du mitt i mangi, il terzo presso una delle poche sale da ballo dove si servivano solo dolci razionati per persona: che poi erano riti sostitutivi del viaggio di nozze). Cominciavano a nascere le sale destinate proprio ai i matrimoni. Persino le parole cambiano: il termine sposalizio viene man mano soppiantato da quello, appunto, di matrimonio (lo sposalizio evidenziava il contratto tra due persone di genere diverso – pensate a quello della Vergine dipinto dal Tintoretto); il matrimonio sottolineava il fine della procreazione: i soldi c’erano e quindi si potevano ordinare più facilmente i figli alla cicogna oppure all’ortolano che li raccoglieva sotto la c’cozz. Solo dopo il sessantotto si cominciò a pensare che potesse c’entrare il bacio). L’uso delle sale costava e gli andriesi pensarono bene di riversare questi costi sugli invitati, non altrettanto fecero i coratini, per i quali vigeva la consuetudine che a pagare fossero i genitori perché gli invitati portavano regali spesso anche inutili: un tappetino per il soprammobile, una “grasta” da mettere sul balcone, “u scaldein” per stirare, eccetera. Ad Andria invece gli invitati dovevano portare i soldi e non potevano essere pochi perché al tavolino, all’ingresso della sala, dove tutto si annotava con tanto di testimoni, si rischiava la brutta figura e quindi il richiamo a dare la differenza. Per evitare le liti che spesso si scatenavano si introdusse poi la busta che almeno al momento nascondeva la cifra. Alla fine i genitori di Antonio e Carmela decisero che ogni famiglia avrebbe pagato per i propri invitati il che determinò uno scompenso: gli invitati coratini furono pochissimi mentre gli andriesi furono in tanti. Questo sistema di portare i soldi come regalo nel tempo fece impazzire il commercio matrimoniale: all’odore dei soldi cominciarono a nascere sale sempre più di lusso, menù sempre più costosi, tanto che arrivò il tempo che quando un familiare si presentava in casa con l’invito di matrimonio è come se fosse arrivata na grann’noit (una grandinata). Il tutto aggravato dall’obbligo della restituzione: “ioie so mniut a taie i tiue ada mnoie a maie”, con la conseguenza di liti e rapporti in frantumi. Adesso con l’invito, anche per il battesimo, ti mandano l’iban per il bonifico bancario, con buona pace dei sentimenti di parentela e amicizia. E’ qui anche la spiegazione delle buste per portare a casa le cibarie non consumate: “r so pagoit”, sentivi dire, anche se poi spesso quella poltiglia andava a finire nella spazzatura. Salvo incidenti. Proprio al matrimonio di Antonio e Carmela capitò che a una invitata venne la sciagurata idea di portarsi anche i piatti. Le era riuscito il colpo, peccato che non si era accorta che la borsa di tela in cui tutto aveva deposto era scucita in un punto e, quando si alzò per andare via, a causa del peso, si scucì il resto e caddero i piatti che si ruppero con fragore facendo arrossire la malcapitata che si difese: “so doit u rgoil gruss”. Vai a vedere se era vero. Intanto i coratini se la ridevano.

Antonio e Carmela raccontavano spesso questo episodio che contrassegnò negativamente la loro festa più importante, tanto che molti anni dopo, quando toccherà alla nipote sposarsi, i due fidanzati giocarono d’azzardo. Erano stati l’anno prima 2012 in gita a Monticchio andando a mangiare in un bel ristorante della zona. Mangiarono così bene che chiesero informazioni per organizzare lì la loro festa di matrimonio. Sorpresi dal prezzo impegnarono subito la sala. Quando i parenti e amici si videro recapitare l’invito che annunziava la funzione religiosa nella chiesa di san Michele e pranzo di nozze nel migliore ristorante di Monticchio la sorpresa fu grande. Anche perché una generosa offerta portò i monaci a consentire la funzione di domenica per cui tutti erano liberi dal lavoro. L’organizzazione prevedeva anche il servizio pullman per il trasporto degli invitati tanto che alcuni aumentarono la convenzionale dotazione del regalo. Al ristorante le cibarie risentivano della tradizione locale e quindi furono gradite dagli invitati che si adoperarono anche per riempire le buste: “sa, ho il cane a casa”, dicevano ai camerieri sbalorditi, che però li avvertivano che la torta il cane non poteva mangiarla. La musica adeguata, aria di montagna e dell’ottimo vino rosso resero tutti euforici. Tutti ringraziarono gli sposi per la bella giornata e per il ciondolino dato alla confettata. Non era una bomboniera dell’orefice ma: “Sarè quand hann spois!” (chissà quanto hanno speso!) commentavano sul pullman mentre rientravano a casa. Tuttavia rimasero sconcertati quando appena tornati dal viaggio di nozze gli sposi si comprarono un attrezzatissimo Suv. “Hann fatt pizz”, fu il commento più garbato. “La fest du schmmuggh” avvenne nella primavera successiva quando giunse a matrimonio la figlia di uno degli invitati. Anche lei andò a Monticchio per preparare la festa, adducendo solo piccole varianti al menù. Arrivati al prezzo si sentirono chiedere 50 euro a testa: tanto pagarono Antonio e Carmela l’anno scorso? Si, rispose il proprietario. “Ecc u suv da dià l’hann bgghioit!”.

“Naun, naun”, disse la mamma della sposa, “p figghm voggh la festa d luss cumm si ieuse a niue”, e tornarono al menù e al locale tradizionali andriesi facendo le cambiali. “Una volta ci si sposa”, disse la suocera e nemmeno questo era più vero. Qualcuno, a mo’ di battuta ma non tanto, comincia a sussurrare l’intenzione di fare un assegno posdatato a 10 anni: riscuotibile a condizione che il matrimonio sopravviva ancora. Infatti quell’assegno a volte, specie se di parenti stretti, è frutto di una finanziaria. Sarebbe sconveniente continuare a pagare la finanziaria per un matrimonio già finito.

Il matrimonio è il trionfo dell’amore, che si coltivasse nel portafogli è una delle innovazioni della società moderna. “Est modus in rebus”, dicevano i latini che se la sbrigavano con poche parole: è la moderazione che spinge avanti la società.

Nota di speranza: per fortuna ci sono matrimoni simbolici a dare vita al mondo. Sono matrimoni segreti che magari si sanno solo dopo. Una suora che sposa Gesù non fa notizia, salvo il profumo di fiori che si avverte al contatto. Ricordo molto bene il gesto di una anziana suora vincenziana che, passando davanti a un immigrato disteso per terra sulla balconata che fa da corridoio per gli uffici della Caritas, si inchina per una carezza. Io voglio ricordare uno sposalizio eccezionale. Era il 1969. Nel mese di febbraio al vostro narratore capitò di accompagnare nello studio privato del sen. Jannuzzi, il cav. Antonio Nicolamarino e il dott. Vincenzo Cannone, allora responsabili a vario titolo della dc andriese. Quel giorno il senatore comunicò che era sua intenzione organizzare una grande festa per le nozze d’argento tra lui e la città di Andria (era stato nominato commissario per la prima volta nel 1944). La festa ci fu e fu per lui trionfale: morto il 19 maggio di quell’anno i suoi funerali furono una grande festa di popolo proprio come lui desiderava. Infatti così aveva scritto alla sorella Rachele all’inizio dell’anno annunciando la festa: “Dire che la mia festa è festa per gli andriesi è iperbolico. È vero invece che in ogni evento lieto o triste della mia vita mi sento particolarmente vicino alla mia terra, alla quale non mi sembra di dare abbastanza in cambio di quel che ricevo”, Onofrio. È qui la spiegazione del fatto che quando si dice in Andria “il senatore” si pensa subito a lui. A cinquant’anni di distanza “ricordarlo è opportuno, imitarlo sarebbe doveroso” (don Riccardo Zingaro).

domenica 1 Settembre 2019

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Giovanna Melillo
Giovanna Melillo
4 anni fa

Complimenti al narratore…non ci sono storie più belle di queste da raccontare e far conoscere a noi Andriesi..