Cultura

Il carnevale di Beniamino

Vincenzo D'Avanzo
La storia di un ragazzotto balbuziente che seppe conquistare Lucia nonostante il suo problema
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Beniamino era un ragazzotto pieno di buone speranze: viveva in una famiglia agiata, per cui poteva permettersi ogni sorta di divertimento. Tuttavia aveva due problemi: aveva un forte senso di autonomia, il che era un pregio che lo portava però a non chiedere nulla ai genitori e il divertimento e gli hobby se li doveva guadagnare da solo. Alla famiglia il compito di vestirlo, cibarlo e mandarlo a scuola. Questa indipendenza era una scelta per curare l’altro suo problema: la balbuzie. Questa difficoltà nella comunicazione aveva attratto su di se qualche commento di commiserazione ed egli reagiva cercando di dimostrare che se non si capiva quello che diceva il problema non era suo ma di quelli che ascoltavano.

Beniamino andava a scuola, ma nel pomeriggio si offriva in giro per piccoli lavori, il cui utile gli serviva per andare al cinema, permettersi di frequentare la sala biliardo, esibire “u grattamariand” durante l’estate e soprattutto frequentare il circo quando capitava che stazionasse ad Andria. Non pensiamo ai grandi circhi di oggi con l’alternarsi di giocolieri e trapezisti e un po’ di animali (sempre meno per fortuna). Negli anni 50/60 erano piccoli tendoni con qualche pagliaccio, qualche gioco di prestigio, qualche animale “domestico” e tanta buona volontà da parte della famiglia che lo gestiva, che si accontentava di pochi spiccioli ma era esigente per gli applausi. Si coglieva facilmente sul volto la sofferenza di una fatica immane e tuttavia quel viso diventava radioso quando il poco pubblico, fatto soprattutto di bambini, si scatenava nell’applauso. C’era un momento, però, che Beniamino aspettava con interesse ed era quello in cui il pagliaccio coinvolgeva gli spettatori nello spettacolo. Beniamino era sempre pronto ad offrirsi e una volta al centro dell’arena si scatenava con la sua balbuzie, che gli spettatori interpretavano come artefatta mentre per lui era naturale. Gli applausi erano scroscianti e lui indugiava nella ”recita” per poi vantarsi in famiglia o a scuola o tra i compagni di strada. “Havit vist ca m’hann capisciut” diceva soddisfatto. Quel difetto naturale sapeva sfruttarlo tanto che gli amici lo mandavano in avanscoperta sia nella prima decina di novembre quando cantando “addie addie all’urt” si chiedevano fichi secchi e noci, sia soprattutto a Carnevale quando bisognava bussare alle porte delle morose “inconsapevoli” per scatenare “la ptrscioit”. La durata della balbuzie dava modo alla combriccola di riempire la malcapitata di coriandoli e qualche confetto, rigorosamente quelli adatti alla “ptrscioit”, quelli con la “caniggh” (caniglia, residuo di lavorazione dei cereali) che costavano meno.

Man mano che cresceva Beniamino acquistava più sicurezza dal punto di vista psicologico e ogni tanto faceva qualche artigianale esercizio fonetico davanti allo specchio. Per questo, diventato giovane, la balbuzie si presentava solo quando parlava in pubblico (agorafobia), perché in privato riusciva a parlare quasi correttamente. Capito questo, il furbacchione cominciò ad usare la balbuzie come elemento di distrazione di massa. Quest’arma Beniamino la usava soprattutto quando era in comitiva. Nel gruppo egli balbettava anche con le ragazze suscitando quella ilarità che lo rendeva simpatico (le donne si commuovevano davanti ai deboli, allora). I ragazzi lo lasciavano tranquillo perché non poteva essere concorrente nell’approccio con le femminucce. Quando però gli capitava a tiro la ragazza che lo interessava, le parole a Beniamino uscivano fluenti sì da colpirla positivamente.

Ed eccoci al carnevale del 1962: la guerra era ormai lontana, la politica stava dando tutto sommato buona prova di se, Beniamino stava terminando il liceo per poi decidere il da farsi. I giovani abitualmente prendevano di mira nella satira i politici locali o l’onnipresente senatore Jannuzzi. Essi approfittavano delle maschere per esprimersi anche in maniera feroce contro il potere. Quell’anno invece dovettero volgere altrove le loro mire perché il recente attentato al sindaco Marano (attaccato con un’arma da fuoco) rendeva sconveniente un qualsiasi attacco agli amministratori del tempo. Fu allora che divampò la moda di vestirsi da donna, badando bene a coprire la faccia con una maschera onde evitare allusioni alle tendenze sessuali dei protagonisti. Ora c’è la tendenza all’esibizione, ma allora solo l’idea che un uomo non fosse maschio faceva diventare costui oggetto di ilarità se non di satira. Nell’antica Roma al posto del carnevale c’erano i “saturnali” durante i quali si giocava a fare tutto ciò che normalmente era proibito. Ecco, il nostro carnevale tornava all’antico.

Il giovedi grasso Beniamino dovette accompagnare la mamma a comprare i confetti per la moglie del fratello maggiore. Quando vide che spendeva un po’ di soldi per comprare un vassoietto d’argento guarnito di confetti colorati (ma di quelli buoni – la famosa bomboniera) osservò se era il caso di spendere tutti quei soldi, la mamma rispose: “figlio mio ricordati che se rendi dolce la moglie anche il marito ne ricaverà un vantaggio”. Dal che Beniamino capì che le donne dovevano essere trattate sempre con dolcezza.

Il martedi grasso, invece, la comitiva di Beniamino decise di mettere in scena il funerale di carnevale. Presero un pupazzo e lo adagiarono sul panno nero collocato su un carretto trainato a mano dai giovani. E così si aggiravano per le strade fermandosi davanti alle case delle ragazze della comitiva, che erano state invitate per la festa da ballo che si doveva tenere in un frantoio “saup a sambriaveit”. Il corteo era aperto proprio da Beniamino vestito da prete intento a recitare inventati salmi dialettali che con la balbuzie si sposavano benissimo. Quando il carro si fermava rivolgeva l’invito alle ragazze urlando a squarciagola, facendo ovviamente di proposito il balbuziente, il che stimolava l’ilarità di tutti. Le ragazze si affacciavano compunte davanti al simulacro di carnevale e assicuravano o meno che sarebbero andate alla festa. Non si potevano unire al corteo perché i maschi si alzavano spesso le gonne accennando a uno spettacolo indecente. A carnevale tutto era permesso. Oltretutto al ballo dovevano andare accompagnate rigorosamente da un fratello o una sorella più piccoli con il compito ingrato di dover vigilare sulla loro virtù o almeno riferire alle mamme. In compenso si ingozzavano ai piccoli buffet preparati.

Beniamino da tempo guardava con occhi dolci Lucia, una ragazza figlia di una famiglia che con la vita se la cavava. Quando la vide alla festa capì che quella era la serata giusta. La inseguì per tutta la serata quando si accorse che anche lei lo guardava con interesse. Ma Lucia era molto richiesta dai ragazzi. Propizio fu il gioco della scopa: siccome alle feste i maschi erano sempre più numerosi delle donne, i sovrannumero si dotavano di una scopa o di un’asta qualsiasi (raramente un fiore) e si aggiravano nella sala “scoppiando” le coppie. Quando toccò a Beniamino questi si fiondò subito a scoppiare Lucia e il ragazzo occasionale e cominciò a ballare con lei. Mentre ballava sussurrò nell’orecchio tutto d’un fiato: “balbettavo, poi sei arrivata tu e la balbuzie è scomparsa mentre il cuore è in subbuglio”. Lucia fu sorpresa da quella frase, ne aveva capito il senso ma dalla bocca le uscì un banale: “hai detto?”. Beniamino capì che la fortuna lo stava premiando, prese per mano la ragazza e si avviò verso la porta che era aperta per fare entrare un po’ d’aria nella sala affollata. Il fratello di Lucia immediatamente si spostò verso l’uscita per controllare la situazione. A quel punto Beniamino fu bloccato: aveva immaginato di dichiararle il suo amore e invece: “guarda che meravigliosa luna c’è stasera, è bella e radiosa, quasi quanto il tuo sorriso”. Il fratello di Lucia non capì ma lei fu affascinata da quella espressione, arrossì e indugiò a guardare la luna. Nel silenzio Beniamino riprese: “fra poco bruceremo carnevale, dopo per me ci sarai solo tu, vestita di coriandoli”. “Vestita di?” chiese Lucia mentre si rivolgeva al fratello: “non dire niente a mamma, lo dico io”. E così fu. Il giorno dopo informò la mamma dell’incontro imprevisto. Quando la mamma per indicarlo chiese: “cià u balbuzient?”. “Si”, disse la figlia, “ma le cose dolci sa dirle tutte d’un fiato”. E così la mamma diede il consenso. Quando nella comitiva si diffuse la notizia del fidanzamento tutti si meravigliarono e furono presi da invidia, tanto che alcuni amici cominciarono a balbettare per finta.

In un villaggio africano un bambino balbuziente cominciò a gridare “ip…ip…ip” mentre correva; tutti risposero “hurrà” e furono travolti da un branco di ippopotami. Solo il piccolo balbuziente si salvò.

domenica 16 Febbraio 2020

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Antonio zingaro 51
Antonio zingaro 51
4 anni fa

Bellissima