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Una “straniera” venuta da Andria, assunta dall’Unicef per assicurare l’istruzione ai bambini: Maria “Ahou” Paradies

Lucia M. M. Olivieri
«Basta un po' di buona volontà: basta conoscersi, per non temersi, e non aspettare sempre che sia qualcun altro a fare il primo passo verso di noi. Chi di noi ha mai visto l'inferno?»
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Un pomeriggio di chiacchiere naturali, come quelle che si fanno tra amiche di una vita, difficili da condensare in qualche riga: così ho scoperto una persona speciale, con un mondo interiore talmente ricco da far invidia a tanti di noi.

Maria “Ahou” Paradies, 37 anni, ma ne dimostra almeno 10 di meno, con un’aria seria ma insieme sbarazzina. Un caschetto nero, lo sguardo profondo, ironia tagliente: viaggiatrice, instancabile, un vulcano di idee.

Sarà per questo, e per la sua conoscenza di inglese, francese, spagnolo, «un po’ di portoghese, un po’ di arabo, un po’ di norvergese, ma solo un po’, davvero», per la laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Forlì, che l’Unicef (il Fondo delle Nazioni Unite per l'infanzia) ha scelto questa ragazza andriese per affidarle il ruolo di responsabile dei programmi di educazione e istruzione nell’area nord dell’Iraq.

 

Come sei arrivata a lavorare per Unicef?

«Con la gavetta, imparando sul campo. In realtà posso dire che ho sempre avuto l’istinto, la passione di proteggere i bambini, lavorare per i diritti dei bambini. Ho iniziato con la tesi di laurea, trasferendomi in Senegal, sulle politiche di lotta allo sfruttamento sessuale dei minori, sul turismo sessuale e il legal framework. Il mio amore per l’Africa non ha età: condurre le ricerche per la tesi sul Senegal è stato difficilissimo, tutti mi chiedevano perché non Thailandia, Cambogia, per cui c’era già materiale edito, e io dicevo: “Perché qualcuno lo deve fare”. Mi sono specializzata sul tema del traffico di minori per tutte le possibili forme di sfruttamento dei bambini.

Ho anche collaborato con un professore universitario, Marco Scarpati, e con le università di Milano Bicocca e Parma».

 

E poi?

«E poi tanto, tanto volontariato con Ecpat, una Ong nata per combattere lo sfruttamento sessuale dei minori, oggi si occupa anche di contrasto alla pedofilia e pedopornografia, online e offline, lotta alla prostituzione minorile e turismo a scopo di sfruttamento sessuale dei minori, attraverso diverse attività, con base a Roma ma girando per tutto il mondo. Dal 2005 inizio a lavorare con Save the children con missioni in America Latina, Africa subsahariana e Asia. Grazie alla conoscenza del portoghese, ho fatto esperienze anche in Brasile».

 

Sempre nomade?

«In Costa d’avorio, ho svolto la mia prima vera missione: mi sono trasferita per portare avanti progetti educativi, di protezione dell’infanzia e empowerment delle donne, prevenzione dell’abbandono dei minori, microcredito alle mamme sole».

Ti va di raccontarci qualche storia?

«Proprio in Costa D’Avorio, nel cuore ferito dopo la crisi di cui qui in Italia nessuno ha memoria, sono arrivata a Bouakè, in un posto dove c’erano i ribelli. Ero la capobase e dovevamo incominciare tutto da zero: una sfida incredibile, in un paese dove c’era un piccolo supermercato, tenuto dai libanesi, a vivere in casa semiabbandonata. Tutte le case erano state occupate dopo essere saccheggiate, non c’era praticamente nulla rispetto a ciò che noi oggi consideriamo “indispensabile”. L’altra grande emergenza era la proliferazione dell’Aids, soprattutto nei bambini: col mio progetto, dovevo occuparmi degli orfani per la guerra e per l’Hiv.

Quando sono arrivata, ho ingaggiato, dopo diverse ricerche, Ibrahim, un ragazzo incredibile, molto disponibile con me, che mi ha aiutato moltissimo: un giorno il mio capo ha scoperto che Ibrahim non sapeva leggere e scrivere e mi ha detto di licenziarlo. A me dispiaceva moltissimo perché era un bravissimo ragazzo, ho chiesto del tempo al capo e lui mi ha dato un mese. Ho spiegato la situazione a Ibrahim, che mi ha detto che si sarebbe impegnato a seguire alcuni corsi. Beh, in quel mese, lo trovavo a leggere qualsiasi cosa, anche il libretto di istruzioni dell’automobile, mentre mi accompagnava in giro per la missione. Ora è capo della logistica e a volte ci scriviamo su Facebook. La gente ha solo bisogno, spesso, di avere una possibilità e qualcuno che abbia fiducia, che creda in piccoli, enormi miracoli».

 

Tante vite, tante storie…

«Si presenta all’ambulatorio una signora che era la faccia della malattia. Pensate al concetto di malattia: ecco, era lei. Pelle e ossa, positiva all’Hiv: la signora aveva un bambino stupendo, George, uno di quelli svegli a cui la vita non ha dato nulla, ma intelligente. Abbiamo aiutato lei, George, sua cognata, tanti altri nuclei famigliari tutti collegati: la mamma sopravvive e George chiede ancora di me».

 

E ora cosa fai per l’Unicef?

«Ora per Unicef sono in Iraq: lavoriamo con il governo e con le organizzazione non governative locali e internazionali, sia per rafforzare il sistema educativo con programmi stabili, per esempio per rafforzare le competenze acquisite a scuola, sia per progetti in emergenza, per assicurare che i rifugiati e i profughi, in particolare tutti i bambini, abbiano accesso a un’istruzione di qualità. Noi facciamo tutto ciò che c’è dietro il sipario, dalla costruzione di scuole alla formazione e reclutamento degli insegnanti».

 

Con Andria che rapporto hai?

«Torno a casa quando posso dalla mia famiglia, ma seguo gli eventi via Internet. Mi spaventa davvero leggere alcune considerazioni dei nostri concittadini, mi fa agitare. C’è una miopia che non si riesce a spiegare: io a volte vorrei avere meno empatia, non solo verso i profughi e i rifugiati, anche verso le persone che mi circondano, tutte le persone ignorate, trattate come inferiori. Con orgoglio, posso dire di avere un pregio, e cioè di non pensare mai di essere superiore a nessuno.

Invece vedo tanta indifferenza: chi ha più diritti di chi? Ma poi, soprattutto, i bambini non devono essere vittime della politica, devono crescere, andare a scuola, avere sogni e speranze per il futuro, che siano in Sudan o in Italia, in Iraq o nelle Filippine».

 

E qual è la tua proposta?

«Assicurare che l’educazione sia parte della risposta umanitaria, valorizzare le risorse: ogni persona conosce e sa fare delle cose. Manca un minimo di tentativo di mischiare le carte, senza ghettizzare ma al contrario tentando di creare momenti di scambio, di incontro. Conoscersi. Chi sei tu? Perché sei scappato? Chi sono io, perché ho paura di te? Ma lo sanno che anche noi facciamo piangere i bambini in Africa perché siamo bianchi? Basta un po’ di buona volontà: basta conoscersi, appunto, per non temersi, e non aspettare sempre che sia qualcun altro a fare il primo passo verso di noi. Chi di noi ha mai visto l’inferno?»

 

Ah, ma perché “Ahou”?

«È una lunga storia…ti dico solo che è un soprannome ivoriano che indica una donna nata di giovedì!»

 

Una corrispondente dal mondo di eccezione, che ama la bellezza dell’Europa ma che ha fatto del mondo la sua terra. Chissà che non acconsenta a raccontarci tante altre storie… 

lunedì 17 Ottobre 2016

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mimina  lorusso
mimina lorusso
7 anni fa

MARIA è la donna del nostro tempo,tempo fatto di contraddizioni e di opportunità. MARIA è la donna del nostro tempo che guarda in faccia il tempo fatto di contraddizioni e di opportunità. MARIA è la donna del nostro tempo che fa delle contraddizioni e delle opportunità la sua personale sfida alla vita. MARIA è la donna del nostro tempo capace di dare senso ai valori. MARIA è la donna del nostro tempo che fa del suo tempo la testimonianza di una umanità possibile. MARIA e la donna del nostro tempo che rende comprensibile l'utopia dei Territori aperti. MARIA è la donna del nostro tempo che ti fa innamorare della parola SPERANZA. MARIA è la donna del nostro tempo che vorremmo uscita dalla casa di ciascuno di noi. MARIA è l'ITALIANITA' nel mondo.