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So bgghioit la palett p nan m scaldè

Vincenzo D'Avanzo
I figli capirono la lezione e tutti si diedero da fare per rendersi utili alla famiglia e alla società. Giuseppe morì contento dopo aver festeggiato i novant'anni nel rimpianto di tutti
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Giuseppe era diventato anziano da un po' di tempo eppure continuava ad andare in campagna. Ai figli che gli sconsigliavano di andarci egli raccontava sempre la storia di due confinanti. Ognuno aveva un piccolo appezzamento di terreno confinante con quello dell’altro. Diventati anziani un confinante vendette il terreno e cominciò a godersi la pensione. L’altro invece ne mantenne la proprietà e andava a coltivare quel terreno per le esigenze familiari. Il risultato fu che il primo si annoiava per non saper che fare, il secondo invece continuava ad essere indaffarato. Certo non come una volta ma con ritmi più lenti tutti i giorni non aveva modo di annoiarsi. Tuttavia un giorno la Morte passò da quelle parti per raccogliere un po' di anime. Quando vide i due vecchietti si pose il problema di chi scegliere: la decisione fu rapida: falciò il vecchietto improduttivo e lasciò in vita quello più indaffarato perché comunque ancora utile. Giuseppe concludeva sempre il suo racconto dicendo che il lavoro allunga la vita.

Di diverso avviso era Marietta, la moglie di Giuseppe. Negli anni Sessanta (verso la fine) anche da noi le donne cominciarono ad andare a lavorare. Nella vecchia tradizione nostrana la donna doveva essere casalinga: pronta a rassettare la casa (normalmente una o due stanze scarsamente ammobiliate) preparare il pranzo (o la cena quando si mangiava una volta al giorno) e tenersi fresca per la sera quando tornava il marito evitando di farsi trovare con il mal di testa. I frequenti mal di testa potevano essere interpretati male dal marito. La contentezza della donna era quando il marito rimaneva in campagna per l’intera settimana. In questo caso ella aveva tutto il tempo per andare a visitare la mamma, chiacchierare con le amiche, andare per negozi di vestiti, misurarsi un po' di tutto e poi magari non comprare niente.

Era però il tempo che ad Andria cominciarono ad aprire i primi laboratori, quasi esclusivamente riservati alle donne, chiamate a lavorare freneticamente in condizioni ambientali dubbie per una misera paga. Per le donne, al di là della paga, fu l’inizio del riscatto sociale perché uscivano di casa, prima di tutto, raggiungevano una certa autonomia economica, si facevano nuove amicizie, si imparava a camminare a passo veloce la sera se qualche ragazzo si metteva all’inseguimento o si faceva trovare a qualche angolo del percorso abituale della ragazza. Per questo lavorare in un laboratorio fu l’aspirazione massima delle giovani fanciulle. L’abbondanza della manodopera teneva bassi i salari. Chiamare un sindacalista non era conveniente. Capitava anche che il sindacalista diventava amante della padrona e allora per le ragazze erano problemi.

Non furono pochi, però, gli uomini che, abituati ad andare in campagna per una intera settimana invogliavano le mogli a frequentare un laboratorio per arrotondare sia pure di poco le entrate. Tra queste donne sposate c’era la vicina di casa che frequentava un laboratorio di intimo e raccontava in giro che la sua era una esperienza molto bella: si chiacchierava, si sentiva la radio, si conoscevano persone nuove. Fu proprio la vicina a stimolare Mariett ad andare insieme: “la mattina accompagniamo i bambini a scuola e poi andiamo al laboratorio. Facciamo solo 4 ore in modo da poter andare a riprendere di nuovo i bambini e rientrare a casa”.

Ogni volta che l’amica insisteva lei trovava una scusa che l’amica smontava ma che lei non recepiva. Un giorno, dopo tanta insistenza Mariett sbottò: “So bgghioit la palett p nan m scaldè”.

La prima volta l’amica non capì e così la seconda e la terza, vergognandosi di chiedere cosa c’entrasse la palett i r fuggh. Un giorno chiese al marito raccontando il fatto: “che vuol dire”, chiese ingenua, “So bgghioit la palett p nan m scaldè?”. E il marito rispose: “questa è una cosa che diceva sempre mia madre quando mio padre la invogliava a darsi da fare per aiutare il ménage familiare”. Le donne che non volevano lavorare usavano dire: ho preso la paletta per non scaldarmi a smuovere il fuoco, in pratica mi sono sposata per farmi dare da mangiare. Erano le donne che non avevano voglia di lavorare e si sposavano per farsi mantenere dal marito (la palett). Queste donne furbacchione facevano molta attenzione quando cercavano marito pensando non tanto all’amore (tanto quello viene dopo) ma alle proprietà o alla professione: era fortunata colei che pur di famiglia contadina si sposava nu galandoum.

Non a caso quando una figlia femmina si sposava i genitori dicevano: “hamm alzoit u chiangaun”, oppure “hamm sfrangiut la uagnedd”. Le figlie femmine erano un peso per la famiglia. Prima si sposavano meglio era. Se diventava grande senza sposarsi il suo destino era di rimanere zitella (vacanduie o bzzouch). Non dimentichiamo che allora la maggior parte dei matrimoni erano combinati e molte volte andavano all’altare persone che si erano conosciute tramite l’ambascioit (portate da donne specializzate nel trovare mariti). I matrimoni comunque,  anche se combinati, resistevano l’intera vita perché sia gli uomini che le donne erano educati sin da piccoli ad adattarsi al carattere reciproco. E qualche volta aiutava la comprensione u palttein mnoit ngrciur. Capitava allora che qualche donna si svegliava e si ricordava che da piccola aveva imparato a cucire o a ricamare.

Giuseppe non fu altrettanto fortunato: la moglie non smise di ripetere la teoria della “paletta” facendosi trovare dal marito, però, sempre indaffarata al suo ritorno. Tuttavia non sappiamo se Giuseppe preferiva continuare ad andare in campagna piuttosto che diventare scansafatiche come la moglie, che con l’andare degli anni diventava sempre più sciatta e insopportabile. Capitò tuttavia che Mariett morì prima di Giuseppe. Normalmente erano le donne a sopravvivere ai mariti perché quando questi smettevano di lavorare morivano di inedia, mentre le mogli si mantenevano in vita indaffarate con i servizi di casa o la cura dei nipoti. Allora i figli si ricordarono della morte che dovendo scegliere falciava gli inutili.

Giuseppe, rimasto solo, riunì i figli e spiegò a modo suo e con parole povere il senso della sua vita: “Io sono andato tutta la vita in campagna, sapevo solo coltivare le piante e ho fatto sempre quello. Sembrava un lavoro faticoso e tuttavia ho dato agli altri quel poco che riuscivo a raccogliere. Però quello che ho avuto dagli altri è stato molto di più: pensate a chi mi ha dato i vestiti, chi ha fatto la pasta, chi ha costruito la bicicletta ecc. ecc. Tutte cose che io ho usato pur non sapendole fare. Sono contento di quello che ho fatto perché mi ha consentito di non essere di peso agli altri e  ho ricambiato in parte quello che ricevevo. Intanto ero sempre attivo e non avevo nemmeno il tempo di ammalarmi. Immaginate la noia di chi non ha avuto la necessità di lavorare e si faceva mantenere dagli altri. Io la festa l’aspettavo e allora era bello riposare e gioire. Lo scansafatiche non ha modo di godersi nemmeno il giorno di festa”.

I figli capirono la lezione e tutti si diedero da fare per rendersi utili alla famiglia e alla società. Giuseppe morì contento dopo aver festeggiato i novant’anni nel rimpianto di tutti.

Nella sua semplicità l’insegnamento di Giuseppe aveva radici profonde: Dio si rivelò all’uomo attraverso il “lavoro” creativo e, dopo sei giorni, fu contento di quello che aveva fatto e si riposò felice. L’uomo era chiamato allo stesso schema se non avesse seguito la tentazione di mangiare senza lavorare. Da allora il lavoro da essere piacere è diventato fatica. Senza quella fatica, tuttavia, l’uomo non si realizza, per questo compito primario della società (e della politica) deve essere quello di creare lavoro per tutti.

“L’uomo è nulla senza talento ma il talento è nulla senza lavoro” Emile Zola

domenica 2 Maggio 2021

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